
Roubaix, une lumiére
Regista
Arnaud Desplechin
Genere
Drammatico
Cast
Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz
Sceneggiatore
Mosco Boucault, Arnaud Desplechin, Léa Mysius
Produttore
Why Not Productions, Arte France Cinéma
Durata
119 min
Offerte
Data di uscita
1 ottobre 2020
Il cinema non c’è più (?). Del futuro della Settimana Arte non si parla, al momento. Per sopperire alla nostalgia da sala, la redazione di Cinewriting vi consiglia di recuperare un film profondamente radicato nell’essenza del linguaggio cinematografico, arrivato giusto in tempo nelle sale italiane prima della chiusura. Si parla di Roubaix, une lumiére – Roubaix, una luce, film del 2020 diretto da Arnaud Desplechin con Roschdy Zem e Léa Seydoux. Un poliziesco (quasi) vecchio stile, profondamente originale nel suo intimo connubio di immagini incisive e dialoghi sommessi. Tratto da un fatto di cronaca nera che sconvolse la Francia, la storia racconta dell’indagine del commissario Daoud (Zem) e del suo dipartimento sul brutale omicidio di un’anziana signora, strangolata nella sua casa la sera di Natale. I sospetti cadono su due donne (Seydoux e Sara Forestier), vicine della vittima, che sembrano nascondere più di quanto dicano. Il tutto sullo sfondo di Roubaix, città industriale delle Fiandre francesi, teatro intriso di un grigiore e una tristezza profondi, che dicono più di quanto (non) sembri.
Polar, breve storia di un genere
Roubaix, une lumiére si inscrive nella tradizione del polar francese. Per i novelli cinefili, trattasi di un genere cinematografico, precisamente un neologismo nato dalla fusione di policier (poliziesco) e noir. Furono proprio i critici francesi i primi a utilizzare il termine per indicare quella tipologia di film prodotti negli Stati Uniti negli anni 40. Tali film erano caratterizzati da un’originale commistione di ispirazioni e suggestioni. Su tutti, l’influsso dell’espressionismo tedesco e della psicanalisi, le trame tratte dalla letteratura hard boiled, il pessimismo ontologico simboleggiato dalle atmosfere buie e ombrose, la centralità di nuovi personaggi (il detective e la femme fatale). L’anno di svolta è il 1955: in Francia fu pubblicato Panorama du film noir américain, 1941-1953 di Raymond Borde e Etienne Chaumeton, che definitivamente il termine noir. Fu una vera e propria rivelazione. La consacrazione negli Stati Uniti avverrà solo nel 1971, con la pubblicazione di Notes on Film Noir di Paul Schrader (lo sceneggiatore di Taxi Driver, per intenderci).
L’età d’oro del noir
A partire dagli anni 50, la Francia mette in produzione film ispirati al modello americano. Le storie, tuttavia, sono profondamente francesi: nei luoghi, nel linguaggio (anche cinematografico), nei personaggi e nella “morale”. Nasce così il polar. Il trionfo del genere arriva tra gli anni 60 e 70. In questo periodo, sono prodotti i migliori film e i maggiori successi. Si impongono grandi registi, come Godard, Truffaut, Chabrol, Clement, Lelouche, Tavernier, e tanti altri: ognuno realizza la propria visione del polar. Ma il genio sui generis è Jean-Pierre Melville, colui che ne ha dettato tempi e i silenzi, definendo l’ontologia della figura del criminale e del poliziotto suo avversario. Melville ha imposto una nuova grammatica del poliziesco, ispirando un’intera generazione di registi. Vale la pena di ricordare I senza nome e Tutte le ore feriscono e l’ultima uccide. Il polar fece anche la fortuna di un’intera generazione di nuovi attori e attrici, veri e propri divi/e. Oltre al sempreverde Jean Gabin, si ricordano Alain Delon, Jean-Paul Belmondo, Cathrine Deneuve, Romy Schneider, Yves Montand, Lino Ventura, Jean-Louis Trintignan, Jeanne Moreau e Michel Piccoli.
Viale del tramonto
All’inizio degli anni 80, il polar entra in crisi. Le produzioni americane conquistano sempre maggiori fette di mercato a scapito del cinema popolare, mentre la generazioni di attori e registi che fece la fortuna del genere è ormai sul viale del tramonto. Così, quando negli stati Uniti si impone il neo noir, il polar in Francia si spegne quasi del tutto. Almeno, fino a oggi.
Una Babele di confine
Desplechin ha sempre avuto un particolare sguardo per la sua città natale, Roubaix. Ma più che raccontare la realtà di quegli spazi di confine, film dopo film, ha mostrato una sua visione attraverso il filtro dei sentimenti e dei ricordi. Senza mai cadere nel sentimentalismo più becero, in Roubaix, une lumiére la città è la protagonista assoluta. Ed è vera, contraddittoria, austera, ma ancor di più, critica. Una Babele di lingue e culture, sospesa tra la frontiera e le macerie postindustriali, in equilibrio precario sul baratro dell’abbandono. Un incrocio di popoli attorno a un punto d’ebollizione, prossimo a divampare, in cui si cerca di far fronte alla rabbia, al vuoto e alla disperazione. Non a caso, ci sono molti incendi in Roubaix, une lumiére, a partire dalla primissima inquadratura: una macchina in fiamme sul ciglio della strada, con il commissario Daoud che dà l’allarme in centrale prima di tornare a casa. Ed è sempre un incendio a dare il via alla traccia principale della narrazione, dopo una lunga carrellata di casi più o meno ordinari. Tutti crimini effettivamente accaduti, che di fatto accadono. E che rimangono nel limbo della morale, messa in dubbio dalla vita.
Noir metacinematografico
Il regista sembra chiedersi spesso in che modo filmare sottraendo alla codificazione del genere. Infatti, vediamo il protagonista che prova a far uscire le parole dal silenzio per ricostruire i gesti del crimine con esattezza. In fondo, non è questo che significa fare un film: il tentativo di illuminare le zone oscure, quanto del vissuto rimane in ombra? Un noir metacinematografico, dove nel modo di indagare del personaggio – riflesso in altri frammenti sfuggenti e personali di dolori, rotture familiari, appartenenza, identità – qualcosa rimanda al gesto della messinscena, alla composizione di parola e immagine. Alla narr-azione, appunto. Elementi intimamente legati nell’opera di Desplechin, anzi ogni volta quasi una sfida nella sua ricerca intorno al linguaggio, all’errore, alla suggestione di una possibilità che diviene evidenza nel momento in cui assume una forma visibile.
Ceci n’est pas un film social
Dal commissariato, Roubaix (la luce) si apre al mondo, mentre l’indagine – fino alla verità sul delitto – riesce a catturare il sentimento, i conflitti, le discrepanze di quella realtà disseminata in particolari, proprio perché il suo tragitto non è diretto. C’è il nostro tempo qui, e c’è la società presente (francese o europea), eppure Roubaix, une lumière non vuole essere un film sociale. Al contrario, oscilla lungo diversi confini, si fa tragedia classica e allenamento alla comprensione. Arte di guardare il mondo, invenzione di cinema.
Un gioco raffinato e un cast da brividi
Commento finale: un poliziesco profondo e attuale
Raffinato gioco di sguardi e parole dette a mezza voce. Lingue e parole impastate che si mescolano. Un noir che sovverte le regole del genere per farsi profondo specchio di un’attualità rabbiosa, disperata e densa di solitudine. Un film di Natale sui generis, per riflettere sul potere della narrazione cinematografica, sulla sua capacità di re-immaginare il mondo. Un film ottimo, la rinascita di un genere. Un gioco di incastri e dialoghi in cui anche la componente sonora la gioca da padrone, con musiche pregnanti. Uno sguardo, quello cinematografico, che dal vivo ci manca moltissimo.
Recensione di: Margherita Montali

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Pro
- Regia quasi invisibile, con una visione d'insieme profonda e attuale
- Un polar che scardina le regole
- Cast da brivido (e Zem più di tutti!)
- I dialoghi
- Roubaix, città-metafora
- Un film di Natale particolare
Contro
- Il doppiaggio italiano: recuperatelo in lingua originale!
- Non aspettatevi un film sociale