
Il potere del cane
Regista
Jane Campion
Genere
Drammatico , Western , Women Directors
Cast
Benedict Cumberbatch, Jesse Plemons, Kirsten Dunst
Sceneggiatore
Jane Campion
Produttore
See-Saw Films, Brightstar, Max Films International, BBC Films ,Cross City Films, New Zealand Film Commission
Durata
136 min
Offerte
Data di uscita
17 novembre 2021
Il potere del cane: un western introspettivo e sofisticato
Esistono alcuni registi capaci di far percepire il proprio sguardo, autori che donano i propri occhi allo spettatore, la cui intenzione è visibile in ogni fotogramma della loro opera. È prerogativa degli animi sensibili, degli esteti, di chi preferisce che parlino più le immagini che i personaggi. Jane Campion è sempre stata uno di quei registi e Il potere del cane (disponibile su Netflix dal 1 dicembre 2021) non fa altro che ribadire il suo talento.
Sono passati dodici anni dal suo ultimo film, ma Jane Campion non ha perso il suo tocco. Il potere del cane, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage, le è già valso il Leone d’Argento per la Miglior regia alla Mostra del cinema di Venezia e potrebbe valerle anche il suo primo Oscar alla regia. Nel frattempo, l’autrice ha già raggiunto due lodevoli traguardi: il suo film è, in questa annata, quello con più candidature, e lei è l’unica donna nella storia dell’Academy ad aver ricevuto due nomination come Miglior regista.
L’ineluttabilità del progresso
1925, Montana. I fratelli Phil e George Bubank dirigono un ranch, vivono in simbiosi, sono inseparabili nonostante le differenze. Phil (Benedict Cumberbatch) è l’incarnazione del mandriano rude, sporco e machista. George (il lanciatissimo Jesse Plemons) è formale, gentile, silenzioso. Phil è ancorato all’idea di quel che dovrebbe essere, per lui, un “vero uomo” e rinnega tutto ciò che possa disturbare lo status quo. George, invece, vuole abbracciare il cambiamento. E introduce nella vita del fratello due elementi di disturbo per Phil inaccettabili: una donna e suo figlio.
Phil vive un’illusione. L’idillio di testosterone e sudore che ha creato per sé vacilla sotto il peso di una modernità che sempre si fa più vicina e che lui vorrebbe solo respingere. Ma non si può fermare il progresso. George si sposa e sua moglie Rose (Kirsten Dunst) si trasferisce dai due fratelli. Insieme a sé porta il figlio introverso ed efebico, Peter (Kodi Smit-McPhee). George e Rose accettano il presente, cercano di adeguarsi e di assecondare il cambiamento. Peter, giovane studente di medicina apatico e distaccato, ha l’occhio già puntato verso il futuro. E Phil, che ricorda il deceduto mentore Bronco Henry con un trasporto ambiguo, che lotta con una sessualità repressa e che perfino rinnega la sua laurea, vive in un eterno passato. Ed entra in conflitto con ognuno di loro.
Scontri tra passato, presente e futuro
Se il conflitto con il fratello viene velocemente archiviato grazie alla testardaggine (e forse anche alla cecità) di George, i due nuovi arrivati non riescono a togliersi gli occhi di Phil di dosso. Rose, tormentata da lui come lo è dal suo fumoso passato, vacilla fin da subito. Per crollare le basta lo sguardo del mandriano, sentire la sua presenza in cima alle scale, sapere che la spia dalla finestra. Si sente inadeguata, incapace, come quando siede a un piano ed è consapevole di essere una musicista a malapena mediocre, una delusione per il suo nuovo marito, che tanto crede in lei. Rose cede al demone dell’alcol, fin da subito (inspiegabilmente) arrendevole. Solo il pensiero di salvare suo figlio le dà la forza di reagire. Anche Peter è vittima dello sguardo inquisitore di Phil, ma non ne è soggiogato. Viene prima deriso per la sua delicatezza emotiva e fisica, poi Phil decide di prenderlo sotto la sua ala. Smunto, passivo e schivo, Peter si presenta come la preda perfetta, pare possa cadere facilmente nelle grinfie di Phil, che un po’ lo umilia e un po’ lo corteggia. Ma il ragazzo ha dalla sua parte tutta la forza del nuovo millennio.
Un western introspettivo con poca introspezione
Il potere del cane rimane esplicito in propositi e metafore, efficiente nella creazione di atmosfere, ragguardevole in tutto il reparto tecnico. A mancare, però, è uno scavo più profondo negli intenti e motivazioni dei personaggi. Limpidi e trasparenti nei ruoli che gli sono stati assegnati, raramente riescono ad andare oltre ad essi. Soprattutto il personaggio di Jesse Plemons non è sfruttato a dovere, arrivando addirittura a sparire dalla scena una volta svolta la sua funzione. Nessuno di loro è capace di suscitare grande empatia, nemmeno la povera Rose, immeritatamente poco approfondita. Il personaggio di Cumberbatch è di gran lunga il più curato e riesce almeno nell’obiettivo di risultare sfaccettato, con una psiche tormentata e repressa, schiacciato dalla mascolinità tossica che lui stesso difende e promuove. Ma non è comunque abbastanza in una pellicola così basata sull’introspezione.
Lo sguardo di Jane Campion
Se nella scrittura il suo concettualismo può apparire respingente, nella regia Jane Campion dà il suo meglio. Il Montana si staglia sullo sfondo come un minaccioso confine ignoto, con paesaggi selvaggi che circondano l’abitazione inquadrati in prolungati campi lunghi. All’interno del ranch, invece, il gioco di luci e ombre rischiara di poco un ambiente claustrofobico, in cui dietro ogni angolo sembra nascondersi una minaccia silenziosa. La camera indugia sugli usci, si sofferma sui particolari più disturbanti, come quello di un dito che stride accarezzando i denti di un pettine. L’attenzione al dettaglio della regista è visibile, quasi maniacale e il risultato è la dimostrazione della bravura di una grande artista che meriterebbe di ricevere, dopo l’Oscar alla sceneggiatura, anche quello alla regia.

Il potere del cane e le sue dodici candidature all’Oscar
Ci si augura che anche il talento cristallino di Ari Wagner, direttrice della fotografia, sia riconosciuto con l’ambita statuetta. L’armonia delle due donne è di certo il punto vincente di un’opera che, senza questo estro artistico ed estetico, sarebbe rimasta anonima. Il loro lavoro di fino è accompagnato dalla colonna sonora di Jonny Greenwood, compositore, quest’anno, anche per Spencer di Pablo Larraín e Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson. La candidatura è arrivata, però, per la musica sincopata, tesa e avvolgente de Il potere del cane. Indiscretamente presente, la colonna sonora di Greenwood è fautrice, in buona parte, dell’aria di tensione e ambiguità che permea tutta l’opera. Tra le dodici candidature della pellicola troviamo anche quelle ai quattro attori principali. Kodi e Benedict sono, per distacco, i più quotati alla vittoria. Se il primo gioca su un physique du rôle perfetto e su una presenza scenica allo stesso tempo sgraziata e magnetica, del secondo si è impressionati dalla sua capacità di immergersi in qualcosa di totalmente fuori dalle sue corde. Ma per Benedict potrebbe non bastare: Will Smith, candidato per King Richard, pare pronto a soffiargli il premio.
Commento finale
Tutti i pregi e tutti i difetti de Il potere del cane vanno ricondotti a quello sguardo ben percepibile di Jane Campion. Uno sguardo meticoloso, controllato, teso, l’impronta di una vera professionista che sa bene cosa fare, ma che dona un punto di vista troppo rigoroso per lasciare che le emozioni fuoriescano. Lodevole la creazione di un anti-western totalmente privo di duelli e spari, critico nei confronti del tipico cowboy machista e retrogrado di solito protagonista di queste pellicole. La durata superiore alle due ore, il ritmo pesante e la densa drammaticità della narrazione non contribuiscono, però, a rendere l’opera un film coinvolgente. Concettualmente ed esteticamente perfetto, Il potere del cane è un ottimo prodotto a cui manca una scintilla, troppo ligio ai propri schemi per poter esser definito memorabile. Il rischio è di lasciare incantati alla vista, ma ben freddi nelle emozioni.
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Recensione di: Matilde Tramacere.

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Trivia
- La regia di Jane Campion e la fotografia di Ari Wegner.
- Una colonna sonora disturbante, strabordante, tesa.
- Curato fino al minimo dettaglio.
Goofs
- Un'opera talmente meticolosa da risultare fredda.
- Un dramma classico, senza particolari guizzi e originalità.