
Il Colore Venuto dallo Spazio
Regista
Richard Stanley
Genere
Fantascienza , Horror
Cast
Nicolas Cage, Joely Richardson, Madeleine Arthur
Sceneggiatore
H.P. Lovecraft, Richard Stanley, Scarlett Amaris
Produttore
Daniel Noah, Josh C. Waller, Lisa Whalen, Elijah Wood
Durata
111 min.
Offerte
Data di uscita
5 febbraio 2020
Attenzione: l’analisi che segue potrebbe contenere spoiler circa lo sviluppo narrativo della pellicola. Consigliamo peraltro la previa visione della stessa.
H.P. Lovecraft e il cinema contemporaneo
Sono pochi – oseremmo dire pochissimi – quegli scrittori, o più specificatamente romanzieri, in grado non solo di imporsi universalmente a livello più prettamente letterario, ma di riuscire anche nella non semplice impresa di donare alla realtà libraria una pietra miliare su cui porre le salde basi di una rinnovata coscienza collettiva dall’anima squisitamente pop. Inutile ad esempio negare, in un clima culturale quale quello che stiamo vivendo, oramai ammorbato nella più pura e cieca – quanto spesso ottusa e retrograda – esaltazione degli anni ’80 (basti pensare all’ambito musicale, con le sue inconfondibili sonorità synthwave e vaporwave, o all’ambito televisivo/seriale, vessato da produzioni dalla nauseante e stereotipica carica nostalgica quali, ad esempio Stranger Things), l’importanza e l’influenza, sta a voi decidere se positiva o meno, del ritorno in pompa magna sugli scaffali e nei cinema dell’auratica figura di Stephen King. Uno scrittore sicuramente discutibile (non è tuttavia questa l’adeguata sede di giudizio) che, quasi come la mitologica fenice, è riuscito a rinascere dalle proprie mediocri ceneri, residuo di quanto di buono invero prodotto nel pre-duemila, per imporsi, ancora una volta, e con maggior veemenza, nell’immaginario pop collettivo, questa volta della tecnocratica generazione Z che, per ovvi motivi anagrafici, non era stata partecipe diretta della cultura tipicamente 80s (divertente per inciso notare come lo stantio “nostalgismo” pocanzi accennato sembri attecchire maggiormente su chi, come i giovani del post duemila, all’effettivo non hanno potuto vivere sulla pelle l’esperienza di quegli anni). Una partecipazione tuttavia discontinua quella di King nella Pop Culture, o comunque limitata a quella ristretta cerchia di opere che, pedissequamente, vengono riproposte tanto in nuove, doverose, edizioni cartacee, quanto in nuovi, superflui, adattamenti cinematografici (basti pensare all’avvilente IT di Andy Muschietti, o l’altrettanto deludente Pet Sematary di Kölsch e Widmyer). Una partecipazione, dicevamo, che affonda innegabilmente le sue radici in un ben più profondo retroterra culturale, che dall’autore quest’oggi scomodato in sede di recensione, e di cui parleremo ampiamente a breve, si dirama capillarmente in tutta la produzione letterario-orroristica. Un sole, per utilizzare una gustosa metafora astronomica, attorno cui gravitano e dipendono inevitabilmente le vite e le poetiche artistiche di buona parte degli autori di genere della seconda metà del XX secolo. Non a caso è stato peraltro utilizzato il termine “autori“, e non “scrittori” piuttosto che “registi” o “pittori“, al semplicistico fine di descrivere efficacemente l’indissolubile legame estetico creatosi tra gli artisti delle più disparate discipline, evitando in tal modo di ricondurre ad un’analisi ad personam, o per species, l’influenza, quasi febbrile e virale, esercitata da una singola, isolata esperienza letteraria, o per meglio dire filosofica: la rutilante poetica di H.P. Lovecraft è stato tutto ciò, un perno concettuale per gli sviluppi della letteratura di genere tutta, dall’horror alla fantascienza fino al fantasy, e, come già anticipato, anche per realtà artistiche estranee al libro (musica, cinema, pittura, fumetto e videogioco). Il reietto di Providence è stato in grado con i suoi racconti, e i romanzi pubblicati, di dar vita ad un macrocosmo collettivo cui molti dopo di lui – tra cui lo stesso King, Clark Ashton Smith, Robert Ervin Howard, Fritz Leiber, Neil Gaiman hanno indiscutibilmente attinto. Rimanendo tuttavia ben saldi all’ambito qui preso in esame, quello filmico, è bene differenziare le opere lovecraftiane in due filoni ben distinti: quei lavori più peculiarmente ispirati dagli scritti del maestro dell’horror, e quelli che, più spavaldamente, sono veri e propri adattamenti dei suoi racconti.

Se sotto la prima etichetta non possiamo fare a meno di citare pellicole del calibro de La cosa da un altro mondo (1951) di Howard Hawks, The Fly (1958) di Kurt Neumann, Fog (1980), La Cosa (1982) e Il seme della follia (1994) di John Carpenter, Brood – La covata malefica (1979) e La mosca (1986) di David Cronenberg, La Casa (1981), La Casa 2 (1987) e l’Armata delle tenebre (1993) di Sam Raimi, ma anche i più recenti Quella casa nel bosco (2011), The Void (2017) e lo splendido The Lighthouse (2019) di Robert Eggers, per quanto concerne gli adattamenti la situazione si complica, e non di poco. Per quanto il repertorio filmico dedicato a Lovecraft sia quanto mai vasto, riuscire anche solo a trovare registi, o soprattutto sceneggiatori, che siano stati in grado di trasporre fedelmente non sono la forma, ma anche la sostanza – ovverosia la marcescente filosofia di fondo che infesta le pagine dell’autore – è compito ben più arduo: limitarsi ad una bieca imitatio dell’estetica lovecraftiana non dovrebbe difatti bastare di per sé ad instaurare anche solo un banale confronto con la controparte libraria. L’analisi che si sta portando avanti in questa sede di recensione non vuole tuttavia essere una stereotipica e quanto mai anacronistica sfida libro-film, quanto piuttosto uno scontro di poetiche che paiono sempre più spesso contrastanti. Riteniamo dunque giusto, a titolo informativo/didattico, suddividere ulteriormente la succitata etichetta degli “adattamenti” in due eterogenee subcategorie: gli adattamenti che ereditano dallo scrittore di Providence la forma, l’aspetto, la superficialità visiva, e dall’altra parte gli adattamenti che sono riusciti in toto a consegnare allo spettatore una trasposizione quanto più fedele al materiale originale, tenendo fede alla stessa poetica implicita riscontrabile nei libri di H.P. Lovecraft. Partendo da quest’ultima declinazione cinematografica, è impensabile non parlare, seppur brevemente, del lavoro svolto da due mostri sacri dell’horror quali Brian Yuzna ed il recentemente scomparso “collega” Stuart Gordon (che d’ora in avanti, per convenzione e semplicità, troverete abbreviati in BY e SG) . I due, in un adamantino sodalizio artistico, sono stati in grado di trascrivere sul grande e piccolo schermo le fantasie proibite dello scrittore, tra opere più prettamente ispirate al suo universo narrativo, quali il mai troppo lodato Society – The Horror (1989, BY), The Dentist (1996, BY) e The Dentist 2 (1997, BY), Figlia delle Tenebre (1990, SG) e Castle Freak (1995, SG), e pellicole che si legano indissolubilmente alla parola scritta nero su bianco: è questo il caso di Re-Animator (1985, SG), Re-Animator 2 (1989, BY) e Beyond Re-Animator (2003, BY) che riprendono, pur variandolo, l’omonima serie di racconti sullo scienziato Herber West, o i sottovalutati Necronomicon (film antologico collettivo del 1993) e Dagon – La Mutazione del Male (2001, SG).
Introduzione a Il Colore Venuto dallo Spazio
Spostandoci ora a parlare delle opere che, per quanto in buona fede, non sono state in grado di consegnare allo spettatore una visione tale e totalizzante della poetica lovecraftiana, ci troviamo nostro malgrado costretti a citare la pellicola quest’oggi presa in esame: Il Colore Venuto dallo Spazio (2020). Tratto dall’omonimo racconto, scritto nel marzo del ’27 e pubblicato nello stesso anno nella rivista Amazing Stories, la pellicola di Richard Stanley si arroga il non semplice compito di trasporre un vero e proprio manifesto della poetica “cosmica“, archetipo e al contempo summa della filosofia del maestro dell’orrore. Ad un lettore più attento è quasi banale e superfluo dover sottolineare come, ne Il Colore Venuto dallo Spazio, siano già presenti tutti i germogli tematici delle opere più tarde (post 1929). L’inconoscibilità, la fallacia del raziocinio umano, l’inconscio, la crisi dei valori e delle certezze, tutte tematiche care all’autore di Providence che, purtroppo, mal si mescolano con una dimensione più peculiarmente visiva, a maggior ragione se l’elemento soprannaturale, alieno, cardine della narrazione è esso stesso pura astrazione, un ente indescrivibile che appare all’occhio umano come pura percezione, puro colore. Una radiazione incomprensibile che non rientra tuttavia nello spettro visibile umano, configurandosi come un non-colore, qualcosa di nemmeno lontanamente immaginabile anche solo dalla coscienza umana. Logico dunque concludere che con tali premesse sia inutile donare vita filmica al racconto, troppo legato alla dimensione letterario-concettuale, incapace di aderire a pieno ad una realtà estetica e formalistica. Che colore affidare dunque alla radiazione aliena? Come mostrare un colore di cui non possiamo avere esperienza diretta?
Un giorno di ordinaria follia
Nel caotico turbinio del ventunesimo secolo, la famiglia Gardner decide di ritirarsi a vita privata in una remota fattoria nel New England. Nathan Gardner (Nicholas Cage) è un accondiscendente ed amorevole genitore, caratterialmente agli antipodi della più “moderna” e arrivistica moglie Theresa (Joelie Richardson), che mal sopporta l’isolamento cui la realtà agreste la costringe. Questo contrastante binomio rispecchia peraltro la complementare opposizione dei due fratelli Lavinia (Madeleine Arthur) e Benny (Brendan Meyer), l’una amante dell’occultismo e delle religioni pagane e panistiche, l’altro più concreto e razionale. A concludere questo poco idilliaco ed eterogeneo quadretto familiare ci pensa il giovanissimo Jack (Julian Hilliard), il personaggio probabilmente più stereotipato e poco approfondito della vicenda narrata. L’apparente tranquillità ottenuta dal nucleo familiare viene ben presto messa in discussione quando, una sera, un meteorite dalle dimensioni contenute precipita nel loro giardino, accompagnato da un disumano frastuono e da un’accecante balenio violaceo. All’indomani dell’avvenimento, prontamente denunciato alle autorità, l’involucro roccioso sembra esser scomparso, e, interrogato sull’accaduto, Nathan appare candidamente incapace di descrivere con chiarezza la natura dell’incidente, né tantomeno il colore dell’accecante bagliore, per lui inspiegabilmente nuovo e mai visto.
Appare fin da queste primissime battute l’unico vero, grande difetto de Il Colore Venuto dallo Spazio. Non vi è solamente la pretesa di rendere concreto ciò che dovrebbe rimare astratto, conoscibile ed intellegibile ciò che dovrebbe esser inconoscibile, razionale ciò che dovrebbe restare irrazionale, ma con una semplicistica linea di dialogo, volta ad strizzare l’occhio ai più integerrimi lettori di Lovecraft, si mette in evidenza un conflitto di interessi innegabilmente deleterio. Negare il palese cromatismo dell’entità lovecraftiana, al solo scopo di citare il materiale originale, è quanto mai inutile. Lo spettatore è ben conscio che l’ente cosmico si presenti sotto l’incorporea forma di una violacea radiazione, non vi è alcun bisogno di negare l’evidenza dei fatti. Più intelligente sarebbe stata l’omissione di questo particolare o l’effettiva rinuncia, da un punto di vista registico, a mostrare l’avvenimento ed il “colore” stesso, scelta tanto drastica quanto innegabilmente e facilmente aggirabile.
Inizia dunque per la famiglia, tornando infine alla narrazione dei fatti, una lunga quanto macabra odissea, a metà tra il fiabesco e l’orrorifico, ove il tempo e le convenzioni fisico-matematiche lasciano il passo ad un regno astratto e caotico, ove la flora e la fauna si riproducono macabramente in forme vitali mai viste prima e dove soprattutto per l’uomo, nella sua più inetta e debole forma, non vi è più posto. La mefistofelica manifestazione ultraterrena, nella sadica comunione di natura naturans e natura naturata, muta e manipola non solamente l’effimera forma animale, vegetale e – persino – umana, ma al contempo la sostanza, la psychè, la coscienza e, in senso lato, l’anima stessa, concetto per certi versi estraneo all’intima concezione ateistica di Lovecraft (basti pensare a Against Religion: The Atheist Writings of H.P. Lovecraft). E se l’uomo diviene dunque bestia in una malsana commistione di carne e sangue recante echi carpenteriani e cronenberghiani, in linea con la corrente più puramente body horror del cinema contemporaneo, il senno si eclissa dietro la follia dell’inconscio, ove la mente umana non può più nulla e l’oblio regna tra le inafferrabili “geometrie non euclidee“.
La lezione di Cosmatos
Nonostante il seguito innegabilmente di nicchia, ci sentiamo quasi in dovere di accogliere la lezione registica, e soprattutto fotografica, portata avanti da uno dei cineasti più interessanti della contemporaneità artistica. L’influenza silente e quasi subdola del cinema di Panos Cosmatos, così peculiare nella sua stravaganza e atemporalità, diviene quanto più esplicita nelle battute finali de Il Colore Venuto dallo Spazio. Il regista greco-canadese di Beyond the Black Rainbow (2010) e Mandy (film del 2018 con protagonista, ironia della sorte, lo stesso Nicholas Cage), con la sua grana, le coltri di fumo, le accecanti colorazioni neon che sembrano portare agli estremi l’estetica di Refn e tingere come sangue l’intera pellicola, ha senza dubbio alcuno ispirato, per lo meno, la resa visiva del pocanzi criticato “colore” cosmico. Al costo di peccare di ipocrisia, siamo portati ad ammettere fanciullescamente che i momenti più riusciti del film, da un punto di vista estetico, visivo, e pertanto più prettamente cinematografico, siano proprio quelli che sostanzialmente, filosoficamente e a livello di poetiche trasposte sono più fallaci. Le manifestazioni terrene dell’entità mostrano da un lato l’estro creativo e la sperimentalità filmica di Stanley, con momenti di forte sovraesposizione cromatica, saturazioni innaturali, interventi di VFX tanto intrusivi quanto naturali nell’economia della pellicola, dall’altro, tuttavia, portano con sé un retrogusto amaro, il sapore di un già visto e di un’ispirazione che è andata ben oltre. Tirando in causa l’opera di Cosmatos il paragone appare lampante e spietato. L’estetica del regista greco è fin troppo peculiare per passare inosservata, e non possiamo dunque negarvi di aver trovato la celebre sequenza del “trip” di Mandy fin troppo simile alla rutilante e caotica esplosione cromatica del finale de Il Colore Venuto dallo Spazio. Un film che mostra, per l’ennesima volta, un’anima ambivalente, diviso tra la spettacolarità e l’originalità registico-fotografica e l’imitazione più spudorata, tra l’adattamento fedele e citazionista e la totale incomprensione della poetica lovecraftiana. Se a ciò ci si aggiunge inoltre un’altalenante prova attoriale da parte dell’intero cast, con un Nicholas Cage per l’ennesima volta sopra le righe, nonostante – ed è evidente – la ricerca artistica di Stanley graviti attorno alla resa visiva e non la direzione degli attori, il prodotto finale appare innegabilmente come un’erma bifronte, scissa tra pregi ben più che ammirevoli e difetti marchiani.
Esplicativa in tal senso è una delle sequenze finali della pellicola. Colpita insieme al figlioletto Jack dal “colore“, Theresa, in un momento tragicomico dallo spiccato gusto body horror, finisce per fondersi con il piccolo in un’unica morbosa e viscerale creatura. L’importanza di questo passaggio non è tanto da ricercarsi nello sviluppo dell’intreccio narrativo, quanto piuttosto in una esplicita ed ennesima contraddizione: l’essere deforme non viene difatti mai mostrato in volto. La macchina da presa inquadra solamente taluni particolari, dettagli apparentemente insignificanti che portano tuttavia lo spettatore a pensare all’essere nella sua mefitica interezza, lasciando all’immaginazione il compito di concludere il lavoro iniziato dal regista. Una scelta sicuramente dettata da esigenze di budget, ma che, dal nostro punto di vista, che sia voluto o meno, impreziosisce, e non di poco, tanto il comparto visivo quanto la fedeltà alla poetica lovecraftiana: il non-visto, la coscienza e la conoscenza che portano alla pazzia e che dunque vengono in un certo qual modo limitate dall’isolamento operato dall’obiettivo, quasi a salvaguardia dello spettatore che viene visto come partecipe diretto dell’azione di scena. Tutte operazione prettamente concettuali che dal nostro punto di vista finiscono inevitabilmente per confondersi e mescolarsi omogeneamente con la filosofia dello scrittore di Providence, ma che al contempo, nella loro fresca intuizione, finiscono per farci porre un quesito che, ineluttabilmente, ci riporta a quella sensazione, già espressa, di ambivalenza. Perché non adottare questa formula per tutta la pellicola? Perché non continuare dunque a percorrere il sentiero della concettualità e della meta-narrativa?
Commento finale:
Il Colore Venuto dallo Spazio è un’opera innegabilmente ambigua, ambivalente, divisa tra la fedeltà all’opera originale e una più criticabile superficialità, tra la più vibrante originalità registico-fotografica e la più bieca imitatio, tra la più genuina concezione e dimensione concettuale e la più impensabile ipocrisia poetico-artistica. Una pellicola che siamo tuttavia sicuri riuscirà ad appagare, sebbene in parte, sia gli amanti delle opere di H.P. Lovecraft che gli appassionati al cinema di genere tutto, con particolare riguardo nei confronti del body horror.
Recensione di: Giorgio Fraccon.
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Trivia
- Visivamente stupendo
- Un adattamento quasi del tutto fedele
- Ottime intuizioni concettuali per quanto concerne l'uso del linguaggio filmico
Goofs
- Interpretazioni mediocri
- Formalmente troppo simile alla peculiare estetica di Panos Cosmatos
- Una pellicola indubbiamente ambigua e bivalente, schiava di un'ipocrisia poetico-artistica