Les Amants du Pont-Neuf. Welcome to Caraxland!
Il film del cineasta francese (o meglio, la sua genesi) meriterebbe spazio ben più ampio di una semplice introduzione. Nato come un piccolo documentario in Super8 girato in bianco e nero, “Les Amants du Pont-Neuf” finisce invece con l’assumere dimensione gigantesche. Il preventivo iniziale parla chiaro: 32 milioni di franchi (5 milioni di Euro) e 6 mesi di riprese sono le condizioni imposte ad un regista che nei film precedenti ha comunque manifestato grande meticolosità e lentezza lavorativa non indifferenti.
I suoi scrupoli estetici portano la produzione ad intraprendere l’allestimento dell’imponente scenografia (quasi a grandezza naturale) della città di Parigi. Il set viene soprannominato “Caraxland” dalla stampa, spaccando in due l’opinione pubblica e caricando il film (oltre al regista stesso) di attese altissime. Tuttavia il costo cresce sempre di più e, mentre i partner finanziari tentennano, il protagonista e attore feticcio Denis Lavant si procura un bel taglio al tendine della mano che lo tiene fermo per settimane. Come se non bastasse la ricostruzione scenografica è all’insegna del risparmio sui materiali (quasi 250 persone lavorano solo per il ponte) e ciò causa continui e fatali danneggiamenti che rallentano le riprese.
Morale della favola? La pellicola viene completata dopo 3 anni di infortuni (Lavant si rompe anche la clavicola), debiti, finanziatori dubbiosi, scenografie tanto miracolose quanto fragili ed infine (è doveroso dirlo) l’incorreggibile testardaggine di Carax. Rifiutandosi di correggere la sua sceneggiatura legittima l’opinione di chi vede in quest’ epopea alla Herzog il film più sincero e personale del francese. Un’idea di Cinema intimo e maestoso, intellettuale e popolare, realistico ed artificiale non poteva che spaccare in due critica e pubblico.
Senzatetto incontra malata
Un giovane vagabondo cade esausto sull’asfalto di una Parigi notturna e semideserta, mentre una ragazza ritrae il suo viso su un foglio. Un autobus della polizia lo porta ad un ospedale dormitorio per passare la notte, ma Alex (Denis Lavant) ritorna il giorno seguente al suo rifugio, il Pont-Neuf. Sul ponte, oltre al vecchio amico clochard Hans, rivede la giovane Michèle (Juliette Binoche), pittrice dal passato misterioso e affetta da una malattia che la sta rendendo cieca.
Tra i due nasce subito un forte legame che spinge Alex ad indagare sui segreti di Michèle. Ritrova il suo diario e scopre la verità: la ragazza è stata abbandonata dal fidanzato musicista Julien e, nell’attesa del suo ritorno, la vista ha cominciato a deteriorarsi senza rimedio. Un giorno Michèle segue il vecchio compagno nel metrò, ma il barbone innamorato riesce a impedire il loro incontro. Successivamente la pittrice si reca all’appartamento di Julien e gli spara attraverso lo spioncino, salvo poi risvegliarsi divorata dal dubbio di aver sognato o realmente ucciso l’uomo. Per non pensarci decide di ubriacarsi con Alex, passando una notte stordente ed emozionante sotto i fuochi d’artificio.
I due ormai stanno insieme e riescono a vivere di espedienti. La relazione tuttavia è minacciata dalla disperata perversione del vecchio Hans, dalla malattia incurabile della giovane e dai manifesti della sua sparizione appesi per tutta la città. Alex decide di bruciarli ma per un banale errore uccide l’attacchino, mentre alla radio si sente un appello di guarigione assicurata per la ragazza. Michèle ovviamente non stenta ad abbandonarlo. Alex finisce in prigione per omicidio e dopo tre anni viene a fargli visita il suo vecchio amore, ormai guarita. I due s’incontrano la notte di Natale per ricominciare una nuova vita, ma la donna vive insieme al medico che l’ha salvata. Il protagonista per la disperazione afferra per il braccio della ragazza e si gettano insieme nella Senna. Una nave con a bordo una coppia d’anziani arriva in soccorso e li conduce lontano dal ponte e dalla città.
L’ambizione dell’occhio…
Sono sempre loro. Gli attori, il plot, le tematiche, i collaboratori. Uno dei dati “oggettivi” di questo terzo lungometraggio è un senso di continuità, di flusso. Il senso di uno sguardo che torna a mettere a fuoco ciò che già aveva esplorato. Eppure, come abbia compresso nell’introduzione, il film è dovuto passare per circostanze straordinarie. Ovviamente la sfiga e i cavilli burocratici-finanziari hanno contato molto, ma alla base di tutto c’è la volontà, l’imperioso desiderio del demiurgo di costruire un corpo audiovisivo multiforme. Non si tratta più del gioco post moderno d’incrociare linguaggi ed influenze. Parliamo piuttosto di una perfetta e coerente fusione di più forme, di differenti livelli d’intensità, di senso drammatico, di colori…
Il vero protagonista forse è proprio l’occhio. Nel suo inarrestabile mettere alla prova i livelli di sensibilità dello spettatore, passando dalla pura fiction a schegge documentaristiche, “Les Amants du Pont-Neuf” riesce a spostare il punto di vista di chi guarda con la stessa efficacia con cui cambia la propria pelle. Grezzo, sporco, materico. Ma anche elegante, poetico e lirico. Sociale, spettacolare ed ambizioso e contemporaneamente sentimentale, intimo, retorico.
Carax si mette in gioco. Armonizza la componente cinefila (punto di partenza per l’indagine sul sentimento) con un realismo, un sentire la realtà e la capitale francese come mai aveva fatto prima. Il paradosso è solo apparente. La macchina da presa del francese esplora uno spazio puramente fittizio (non a caso il set si chiama “Caraxland”) che riproduce esattamente i simboli e le sensazioni del mondo reale. Un occhio che palpa e penetra il “senso del reale” solo se filtrato dalla totalità dell’artificio. Ed il finale con la coppia, ormai anziana, de “L’Atalante” di Vigo che raccoglie sul proprio traghetto i due giovani rappresenta il culmine di questo discorso.
… e i mezzi dell’emozione
“Les Amants du Pont-Neuf” è figlio dunque di uno sforzo produttivo ed artistico immenso. Se in precedenza Carax ha affogato le sue fantasie nel culto dell’underground, del cinema artigianale e indipendente, in quest’occasione esplode in un’ambizione e megalomania irrefrenabile. Il tutto per continuare un percorso sulle possibilità del Cinema di essere “lente”, strumento per l’analisi del sentimento umano.
Ed il francese non si risparmia nulla. Apre uno scrigno, un’ipotetica “cassetta degli attrezzi” cinematografica e vede cosa può fare con gli attrezzi a disposizione. Dolly, steadycam, macchina a mano e cavalletto. L’immagine è linearmente camaleontica per composizione ed anche per cromatismi. Colori pastosi e materiali nutrono la tridimensionalità dei fotogrammi ed offrono suggestioni più ambigue nelle riprese notturne. Anche il ritmo del montaggio cambia a seconda dell’emotività dei personaggi, così come il sonoro si adegua ai diversi contesti poetici.
Cambia la superficie ma le motivazioni di fondo del regista sono sempre riscontrabili in precisi modelli di riferimento. La scuola impressionista dei Gance ed Epstein, i maestri della pittura (Rembrandt, Munch, Van Gogh), l’estetica pubblicitaria, la musica classica… Carax mette arrichisce il classico plot del “ragazzo incontra ragazza” con tutto il suo intelletto e la sensibilità visiva che gli appartiene.
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