Ogni maledetta domenica. Immagini che schizzano come colpi di mitragliatrice
La squadra di football dei Miami Sharks ha visto senz’altro giorni migliori. Le tre sconfitte consecutive (in vicinanza ai playoff) fanno scricchiolare la panchina del veterano Tony D’Amato (Al Pacino) e inducono la nuova e giovane proprietaria (Cameron Diaz) a riflettere sulla possibile vendita della franchigia. Durante un match decisivo l’anziano quaterback Rooney (Dennis Quaid) si fa male e così la sua prima riserva. Le circostanze costringono l’allenatore a buttare nella mischia il talentuoso ed egocentrico Willie Beamen (Jamie Foxx), il quale diventa in poche partite il beniamino dei tifosi e della stampa.
La nuova serie di vittorie tuttavia non riesce a calmare le acque tra società, allenatore e spogliatoio. L’individualismo di Beamen compromette l’alchimia tra compagni di squadra, ma è una risorsa fondamentale per il successo (dunque per le finanze) degli Sharks. E per quello di D’Amato, ritenuto dalla sua stessa presidentessa stanco e superato. Il rientro dall’infortunio di Rooney capita proprio a fagiolo. L’allenatore decide di farlo giocare titolare per la prima partita dei playoff, poi sostituito nella seconda parte da un Beamen ora più maturo e disposto al sacrificio. La squadra vince e approda alle finali. Il ritrovato onore convince Christine a non vendere, ma non ad impedire il trasferimento dell’allenatore ad Albuquerque. Per congedarsi in grande stile D’Amato annuncia con sorriso beffardo che Beamen sarà il suo quaterback. Il film si chiude dunque sulla promessa di un’altra sanguinosissima stagione!
Vincere o perdere… Vivere o morire!
“Ogni maledetta domenica” è un film multiforme, frenetico, schizzato, ma allo stesso tempo lucidamente ancorato e sorretto da temi cardine. Uno di questi è senz’altro l’intenzione visionaria e viscerale del regista di rendere il football, uno degli sport nazionali negli USA, metafora della guerra. Ricordandoci che Oliver Stone in prossimità del 21° secolo aveva già sfornato un titolo chiave del Cinema bellico come “Platoon”, in questo “cult movie” ripropone diversi stilemi delle storie di guerra. Ritroviamo questo genere di figure negli stessi Sharks: l’allenatore/generale, i medici sotto pressione, i giocatori/soldati, i presidenti/alte autorità… Ma non solo. Spesso vediamo i giocatori esultare mimando azioni da campo di battaglia (gettare bombe, mitragliare uomini). Gli stessi schemi di gioco profumano di strategie militari e la componente claustrofobica degli scontri fisici riproduce lo squallore di una trincea.
Guerra negli individui, nelle azioni ed anche nei dettagli. Ossa rotte, sangue, diarrea, vomito, sudore, lacrime e delirio mentale sono utilizzati come escamotage di natura drammatico-sensoriale. Talvolta disturbanti ed in altre occasioni portati tanto all’eccesso da suggerire possibili letture “extratestuali”. La pellicola è firmata da un Oliver Stone affamato, divertito e squisitamente critico sul simbolismo che il football incarna nel suo mescolare vitalità animalesca e razionalità fredda e calcolatrice.
Ed ecco che l’utilizzo di semplici metafore ci consente di percepire la fiamma che accende questi enigmatici cuori di tenebra. Vincere è desiderio di venire alla luce e perdere significa girovagare tra le ombre dell’Inferno. La vittoria nel football significa anche incanalare le differenze dei singoli in una visione utopisticamente univoca e collettiva. Vincere è conquistare territori su territori, in questo caso centimetri su centimetri. Vincere è trovare un equilibrio, forse una cura, agli squilibri del mondo. Stone non dà un’unica risposta ma ne lascia molte sospese. Forse consapevole che i mali del paese e degli uomini che analizza da sempre non possono trovare un unico colpevole.
Il ricambio generazionale
Il giovane e il vecchio, il padre e il figlio, il maestro e l’allievo. Il plot è continuamente ed ossessivamente attraversato da una sorta di fattore inevitabile, di un destino al quale nessuno può sottrarsi, ossia il tempo. Tempo inteso come giudice, alleato, traditore ma sempre e comunque giusto e imparziale. E tempo che trova manifestazione in tre dimensioni comunicanti e simboliche: il fantasma del passato, la frenesia del presente e l’incertezza del futuro. C’è molta voglia da parte di Stone di grattare il cervello dei suoi personaggi con visioni, immagini e spettri dei modelli mitici che tanto ispirano o tormentano le loro stesse esistenze.
Ma il passato è utile fino a un certo punto. Anzi può farsi ostacolo. Ogni personaggio per giungere alla vittoria e consegnarsi alla leggenda deve conciliare “la tradizione”, accettare il proprio percorso di vita con una spietata lucidità sulle dinamiche dell’attimo che sta vivendo. Perchè negli USA si vive il presente con un’intensità che non ha precedenti. C’è questa perenne condizione di velocità o di “esigenza dell’istante” in “Ogni maledetta domenica”. Ciò che fino a ieri era all’avanguardia oggi è superato con una logica del calcolo perfida e giustificata.
La chiave del successo degli Sharks come collettivo (e di conseguenza anche delle individualità) risiede nell’accettare la propria condizione e trasferire dunque “all’erede” il compito di portare a termine la missione. E tutti hanno bisogno di un giovane eroe se ci pensiamo bene. L’allenatore, la società, i compagni, la stampa, i tifosi comprendono che il ricambio generazionale è necessario alla sopravvivenza ed alla vittoria.
Fino all’ultimo fotogramma
Musica tribale, rallenti, montaggio frenetico, accelerazioni, fotografia in acido… “Ogni maledetta domenica” e’ un corpo pulsante ed ambiguo. Uno scrigno dal quale fuoriescono freneticamente suoni, odori, cime di testosterone, sostanze stordenti e potremmo continuare a lungo. Pur spostandosi frequentemente nei vari linguaggi (pubblicità, Cinema, televisione, videoclip) Oliver Stone ci consegna un trip d’immagini coerente e materico. La stessa struttura narrativa prevede che lo spettatore entri nella storia a campionato, anzi a partita in corso e ne esca quando una nuova stagione sta per iniziare. Un flusso nel quale cogliere i segni di una contemporaneità nella quale l’immagine (e in questo Stone è veramente visionario) è sempre più portatrice di valori, storie, esistenze, gusti… e soprattutto di corpi.
Immagini che tutto contengono con sorprendente efficacia ed intelligenza. Gli aspetti più nitidi di questa moltitudine di frame sono la fascinazione verso la virilità e la sensibilità morale e critica verso l’universo descritto. Il Maschio viene esaltato dalla muscolare regia in tutti i suoi clichè più “bassi” e selvaggi. Come la fame di successo, l’orgoglio delle proprie forme, la voglia di femmina, di potere ed il piacere per la lotta. Però anche il timore d’invecchiare e di perdere il proprio orgoglio virile. Stone è un regista che ama provocare e che ha sempre avvertito nel corso della sua produzione la centralità e la fatica del Vedere nel mondo moderno.
Non è un caso che nella scena più bella (e sensualmente repentina) del film intervenga egli stesso, quasi a lanciare beffardamente una delle sue pietre. Un giocatore ha appena perso un occhio durante uno scontro di gioco ed il commentatore (Oliver Stone) esclama: “Sembra che abbia dei danni all’occhio!”. Una frase geniale che esplicita ulteriormente tutto il discorso sull’importanza dello sguardo.
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