Prisoners. La paura, la claustrofobia e l’America nel Cinema di Denis Villeneuve

Con questo titolo del 2013, il regista franco-canadese Denis Villeneuve firma il suo primo film hollywoodiano, dopo il successo e la notorietà portate da “La donna che canta” (candidato nel 2011 agli Oscar come miglior film straniero).

Come spesso capita, i talentuosi registi stranieri che approdano negli USA devono ridimensionare la loro personale visione in favore di alcune schematizzazioni necessarie ai fini commerciali della Macchina cinematografica statunitense. Ecco quindi che “Prisoners” si struttura attraverso alcuni classici meccanismi di entertainment, come il desiderio di vendetta, la ricerca forsennata del nemico e la sete di giustizia, l’indagine poliziesca che si configura poi come una corsa contro il tempo.

La tipica pellicola blockbuster U.S.A.?

Ma Prisoners è americano solo nella forma e nelle facce del suo cast stellare (Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Paul Dano…): al contrario, si discosta dai classici film di intrattenimento in quanto è un film capace di sviscerare le contraddizioni dell’America e far emergere perturbanti interrogativi sulla morale e la religione. Quanto è sottile e quanto è lecito oltrepassare il confine tra ciò che è giusto o sbagliato, ciò che è necessario o inutile, ciò di cui abbiamo bisogno o non cambierebbe nulla, ciò che è comprensibile e giustificabile e ciò che è condannabile e imperdonabile. Un film claustrofobico giocato sulle paure e sulle identità morali di ogni singolo personaggio, che verranno messe a dura prova durante tutto il film, senza mai far trasparire un barlume di sicurezza e speranza, o se sporadicamente succede, questo barlume viene subito soffocato.

Non a caso il simbolo che ricorre nel film è un labirinto, a ricordare costantemente come ogni personaggio sia smarrito lungo sentieri oscuri, nei quali non esiste una morale certa, una fede che possa giovare o salvare. Anzi c’è un sottotesto, richiamato anche da musiche da Chiesa, che mette in dubbio tra le altre cose il valore e la credibilità della religione di fronte alle atrocità e le ingiustizie della vita, tanto che nel film di Villeneuve perfino un prete ha degli scheletri nell’armadio (o meglio in cantina). Scheletri che nel film si percepisce appartengano ad un’intera comunità, la quale rappresenta in forma di micro-cosmo l’intera società americana.

Similitudini e differenze

In questo senso Prisoners riporta alla mente uno dei capolavori americani, firmato Clint Eastwood: Mystic River. Lo ricorda non solo per la fotografia, per le atmosfere, per l’ambientazione unica (una piccola cittadina) dove si svolgono tutte le vicende, ma anche per quel senso di apparente calma e normalità che vibra inquietante in una comunità silenziosa, nel cui sottosuolo scorre un passato oscuro, fatto di fantasmi, di sangue, di rimosso. Un piccolo parallelo si potrebbe riscontrare anche con il film The Village.

“Prisoners” però, nel finale, porta a compimento quegli schemi americani che lo percorrono, regalandoci un mezzo lieto fine (o lasciandocelo intuire), al contrario di “Mystic River” che lascia molto più spazio al dubbio, all’incognita, alla riflessione. Ma è uno di quei casi dove il finale americano sta bene, perché stempera, risolleva un minimo il morale e gli spiriti di un pubblico che per tutto il corso del film viene messo costantemente a dura prova.

Un film per chi ama riflettere ed interrogarsi, un film emozionante e provante, con la pecca forse dell’eccessiva durata.

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