La legge di Lidia Poët: L’ennesima serie decente

Da una produzione Groenlandia, nota per prodotti di qualità, la serie La legge di Lidia Poët è un perfetto mix di televisione italiana e serie Netflix: un crime in costume dai toni (pseudo) femministi e melodrammatici; una trama orizzontale solida, che attinge alla realtà, circondata da storie autoconclusive o intrecci romantici-sessuali strategicamente inseriti; infine, un cast d’eccezione sprecato per il proprio copione.

Le potenzialità ignorate

Sarebbe errato giudicare la serie un prodotto mediocre: è innegabile una qualità tecnico-artistica internazionale da parte di tutto il gruppo di lavoro. Dagli attori, ai costumi, alla regia: a livello produttivo hanno dato il meglio, prendendo il progetto molto sul serio. I veri problemi sono la narrazione, i personaggi, i dialoghi, e come tutto sia così prevedibile, così ‘già visto’, retorico e a tratti disonesto.

Disonesto perché è stato pescato un personaggio di cronaca affascinante (la prima avvocatessa italiana Lidia Poët – ingiustamente allontanata dalla sua vocazione per via dei pregiudizi di genere), con l’opportunità di raccontare un’Italia colta, raffinata, e certo ottusa, pregiudizievole, maligna, consapevole delle sue azioni e in fondo anche divisa nelle opinioni. Il femminismo, così attuale e richiesto, poteva anche essere un ottimo strumento per mostrare una classe privilegiata e ipocrita sfruttare il proprio potere in nome dello status quo, a scapito di risorse giovani e fuori da comodi schemi precostituiti.

Invece si parla di quello che ci si aspetta ed esattamente nel modo con cui lo si aspetta: una donna visionaria e determinata in un mondo monocolore nelle sue convinzioni e ingiustizie. E lei che cerca di raggirare il sistema perché pare essere la cosa giusta.

…E cosa è davvero la serie

Insomma, con un personaggio più attuale che mai, si è persa l’occasione per parlare di oggi. Invece abbiamo, ancora, di nuovo, dei cattivi della domenica, molto bravi a sbraitare frasi fatte senza portare di fatto nessun contributo, nessuna ricchezza, neanche nelle scene in cui sono presenti. Si limitano a trascinare la trama in avanti, con il minimo sforzo sindacale per rappresentare la “società ostile e bigotta”. I colpevoli dei crimini, in particolare, sono esilaranti. Quando vengono colti sul fatto o catturati, la vostra mente può andare solo verso due direzioni: Don Matteo o Scooby Doo. Minacciano, piagnucolano, poi addio.

Il rapporto tra Lidia e gli uomini, ma anche tra altri esseri umani, è l’emblema di ogni femminista Netflix: senza veri conflitti interiori, testarda, sconsiderata e “diversa”. Ha sempre ragione, non per via della sua intelligenza, semplicemente chiunque è sempre in modo lampante dalla parte del torto (tranne quando la lusingano). Se non fosse per “la società ostile e bigotta” non avrebbe mai vere difficoltà né un arco evolutivo plausibile. Il suo unico, vero difetto, come non smettono davvero mai di ricordare, è il suo esser donna anticonvenzionale. Nel caso di Lidia, questo pare concretizzarsi nell’avere rapporti sessuali e nel fare sempre quello che vuole alle sue condizioni (tanto la spunta sempre).

In difesa di La legge di Lidia Poët

Tuttavia, al netto dei cliché di cui siamo già stanchi dopo dieci anni, non bisogna dimenticare un punto cruciale: questo livello di qualità è esattamente quello richiesto. Soprattutto per il pubblico Italiano, in questo specifico caso.

Siamo abituati a pensare che l’offerta generalista italiana sia scarsa a confronto con quella internazionale. Invece è ottima per Netflix. La legge di Lidia Poët regge tranquillamente il confronto con Mercoledì, Tredici, Sabrina, e direi persino La regina degli scacchi. Personalmente, non trovo l’avvocatessa molto diversa da Capitan Marvel.

In sostanza, se contestualizziamo i difetti considerando il suo posizionamento nel mercato, si potrebbe dire che invece Groenlandia ha giocato onestamente le sue carte, ereditando la leggerezza con cui produciamo televisione senza troppe pretese. D’altronde poche serie sono dei capolavori o un riscatto culturale. Netflix non sembra più il posto giusto a cui chiedere un’alternativa. Le serie semplicemente devono intrattenere, e se questo basta e funziona, perché sforzarsi di più?

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