Dahmer – Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer è la nuova serie di Ryan Murphy dedicata al serial killer omosessuale adesso più noto d’America. Dietro questa sintesi si può sfilare tutta la riflessione necessaria sull’opera già fra le più viste di Netflix.
Lo showrunner è noto per la sua maestria nel mischiare cultura americana pop e soprattutto queer, due elementi onnipresenti in tutti i suoi iconici lavori (Glee, American Horror e Crime Story, Pose, Ratched). Con Dahmer, tuttavia, le prime critiche sono arrivate dal suo stesso target. Come se non fosse bastato bypassare i cari delle vittime rappresentate, ignari dell’arrivo della serie (eppure nominati), la stessa è stata inserita (e poi rimossa) da Netflix nella categoria “LGBTQ”.
Omofobia e razzismo: le colonne del successo di Dahmer
Certo, di fatto l’orientamento sessuale del protagonista è fondamentale nel racconto. Bisogna però anche ricordare come la sua esistenza abbia inquinato ulteriormente la reputazione della comunità, creando un nuovo pretesto per associare le minoranze alla criminalità.
Dhamer è ricordato nel mondo omosessuale e afro-americano come uno dei tanti sintomi di discriminazione sociale tra gli anni ’80 e ’90, soprattutto da parte della polizia statunitense. Comunità svantaggiate, “trasgressive”, o semplicemente non conformi, erano abbandonate alla loro stessa miseria: il trattamento più pacifico era l’indifferenza.

Il killer ha approfittato di questo clima per farla franca più di una volta. La sua unica vera arma: essere caucasico in un contesto di neri, indigeni, latini. A creare veramente la sua storia criminale è stato un governo involontariamente ma innegabilmente collaborativo, ignorando evidenti segnali migliaia di volte.
Come spesso accade coi serial killer, tendiamo a posare la nostra attenzione più sulle mostruosità, da noi ritenute dei casi isolati piuttosto che fenomeni sociali, arrivando all’erronea conclusione che il contesto culturale sia solo un pezzo del puzzle. Durante il vero processo di Dhamer non è stata considerata rilevante l’etnia delle vittime e anche la loro omosessualità è servita più per esporre quella del killer. Adesso, dopo diversi approfondimenti, e visto le tematiche principali delle moderne serie tv, sembra quasi impossibile non considerare questi due aspetti.

Il segreto di Dahmer secondo Murphy
La serie ha il merito di riconoscere tutto ciò, evidenziando soprattutto come Dahmer non fosse un genio del crimine. Non è quasi mai cauto, né lungimirante, né carismatico, né perspicace, neanche un granché come bugiardo. Eppure i poliziotti hanno sempre avuto una ovvia simpatia per la sua testimonianza rispetto a quella dei suoi vicini preoccupati. Seppur con la pecca di esaltare troppo il personaggio rispetto alle vittime, gli sceneggiatori non gli scontano nessun errore: i suoi disagi familiari e personali fanno da sfondo ai suoi deliri e perpetui fallimenti, e i successi sono frutto di mera fortuna.
Proprio nel contesto familiare e sociale si trova la chiave di lettura più interessante. Murphy, non di certo estraneo al contesto descritto, ha deciso di esplorare il Dhamer terrorizzato dai suoi desideri, dall’idea del rifiuto, senza separarlo però dalla sua crudeltà, che diventa il suo linguaggio espressivo. Per il Dhamer di Murphy essere attratto dagli organi e dagli omosessuali sono due elementi dello stesso, sporco segreto.

Continuamente negli episodi si accavallano i tentativi di esplorare o nascondere sesso e violenza. Davvero troppe le volte in cui parla di essere “diverso” e ci domandiamo cosa voglia davvero confessare. Non è quindi casuale l’apparente desiderio di giocare con questi confini, ricordandoci che un essere umano, anche il più lontano da noi, non può essere inscatolato in un solo compartimento. Si possono torturare dei poveri innocenti e allo stesso tempo fantasticare su un dolce rapporto romantico. E lui non conosce la differenza.
Il lavoro della produzione
Un punto di vista che mi sembra coerente con l’attitudine dell’autore, a cui tanto piace parlare di zone grigie anche e soprattutto su persone realmente esistite, lasciando a noi discutere dell’etica.
Declassare questi “equivoci” come coincidenze o poca creatività nei dialoghi significa ignorare il minuzioso lavoro dietro la realizzazione del personaggio. Basti pensare che l’attore Evan Peters si è dovuto immergere per mesi nella parte senza uscirne, ascoltando a ripetizione gli interrogatori e mettendosi dei pesi alle braccia e alle caviglie per imitarne l’andatura. Non si sono risparmiati in sacrifici per mantenere un’attenzione maniacale ai dettagli.
Sulla serie in sé
Al di fuori di questa possibile lettura e del famoso meme a tema, la serie non sembra portare valore aggiunto né al genere né alla cultura seriale (diverso, forse, se si fosse soffermato più sul sentire delle vittime). Sebbene diventata così popolare da essere rinnovata per una seconda stagione (trasformandosi in antologica, con ogni stagione dedicata ad un serial killer), farà il suo tempo. D’impeccabile qualità estetica e con un ritmo inusuale per il regista (che si sarà sentito messo alla prova), ma non particolarmente brillante.
È semplicemente ben fatta, velocemente prodotta e fagocitata come tante altre serie Netflix (e di Murphy) per lasciare spazio poi ad altre idee da numeri record. Anche le discussioni etiche lasciano quindi il tempo che trovano, quando le serie crime o i factual avranno sempre successo – e per le ragioni sbagliate.

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