“Non fai un figlio se poi lo abbandoni”. È questa la battuta iniziale di Broker – Le buone stelle, il nuovo film di Hirokazu Kore’eda. Tornato nelle sale dopo Le verità, il regista giapponese ripresenta qui una delle tematiche a lui più care: la famiglia.
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Cos’è una famiglia?
Tema sicuramente più che mai attuale, Kore’eda risponde a questa domanda in maniera semplice: una famiglia è un qualunque gruppo di persone in cui ci si vuole bene. Poco importa la situazione lavorativa dei “genitori”, poco importano i legami di sangue, se esistenti o meno. Essere una famiglia significa volersi bene, comprendersi e accettarsi.
Il film che non si può evitare di menzionare, vista la tematica trattata, è sicuramente Shoplifters. In entrambi questi due lavori, Kore’eda racconta la storia di persone fuori dalla società, rispettivamente dei ladri e addirittura due trafficanti di minori, che si ritrovano a dover accudire dei bambini come se fossero i propri figli. Una piccola, vittima di violenze domestiche, in Shoplifters, e due bambini, uno abbandonato dalla madre davanti a una chiesa, e uno scappato da un orfanotrofio per stare con loro.
Nonostante questa presentazione, il regista giapponese riesce a dipingere un quadro di personaggi complessi, a tratti ostili tra loro (questo più in Broker che in Shoplifters), che riescono però a fare ciò che dovrebbe fare una famiglia: mettere da parte le proprie divergenze, e differenze, per il bene comune, in tutti e due i casi lo stesso, ovvero i bambini.

Il mettersi a nudo
Quando So-young abbandona il bambino davanti alla chiesa, lascia con lui un bigliettino. Una promessa, che tornerà a riprenderlo. Alla lettura di questo biglietto, Dong-soo ha una forte reazione, nervosa, di disincanto. Sa bene che sono solo parole vuote. Solo più tardi capiremo il perché: lui stesso era stato abbandonato in un orfanotrofio, e aveva vissuto con la speranza che sua madre sarebbe stata una delle poche a tornare per davvero.
Affinché si formi una famiglia serve comprensione e comunicazione. Ed è per questo che questa scena assume un’importanza particolare. Perché è da questo momento che So-young riuscirà a capire meglio Dong-soo, e a creare con lui un legame più forte, aiutata inoltre dal suo prendersi cura del piccolo. Anche da parte sua c’è comprensione. Capisce infatti il motivo del comportamento di lei, la sua distanza dal figlio: sa che se si lasciasse andare, non potrebbe più affidarlo ad altri. Per questo si assume lui la responsabilità di stare al suo fianco; proprio come una famiglia, si interviene quando l’altra persona non riesce.
Accanto a loro c’è poi la figura particolare di Sang-hyeon, rappresentante invece di un modello di famiglia più tradizionale, modello che però ha fallito. Kore’eda mette in evidenza che non tutte le famiglie sono perfette e amorevoli: ed ecco che Sang-hyeon si ritrova mal visto dalla propria figlia, che riporta la richiesta di sua madre di non farsi più vedere. Si ribadisce in un certo qual modo quanto sia fragile il legame che porta alla formazione di una famiglia sana, e non sempre purtroppo va tutto come si vorrebbe.

Le altre famiglie
Dall’altra parte, abbiamo le famiglie che non possono avere figli e si ritrovano a dover ricorrere a questi trafficanti per poter crescere dei bambini. Anche qui, la situazione non è tutta rose e fiori, e Kore’eda rappresenta bene come non basti avere le migliori intenzioni per essere una buona famiglia. È il caso quindi della prima coppia, che si rifiuta di comprare il bambino perché brutto esteticamente, proponendo un prezzo molto più basso di quanto pattuito.
Antitesi della madre, vi è poi la figura della poliziotta. In una relazione, senza figli, cerca in tutti i modi di poter incastrare i due trafficanti, anche arrivando a metodi al limite della legalità. Alla fine, ricorrerà al convincere la madre a fare da spia, in cambio di una pena ridotta. Ma questo accordo con la madre non si ha prima di una domanda. Domanda che noi stessi, spettatori, potremmo ritrovarci a fare nel corso del film. Non sarebbe stato meglio abortire, piuttosto che mettere al mondo un figlio per poi abbandonarlo?

Kore’eda non cerca qui di dare una risposta, ma lascia la domanda retorica. La reazione di So-young però colpisce: “Diglielo tu a mio figlio”, risponde, “che avrei fatto meglio ad abortire.” Sia chiaro, non si vuol dare una risposta a questo tema, sicuramente molto delicato. Quello che si vuol far notare qui, è come entrambe le donne abbiano in realtà la stessa preoccupazione. Quello che cercano è solo il bene del bambino. Ed è per questo che il finale del film è perfettamente adeguato. Quando infatti la madre si costituisce e va in galera, si assicura che il figlio venga cresciuto proprio dalla sua inseguitrice. Lei, che era partita con i trafficanti proprio per cercare una famiglia amorevole, la trova nella figura della sua “nemica”, se così si può definire.
Conclusione
Alla fine, dunque, che risposta dà Kore’eda alla domanda con cui abbiamo iniziato, “Cos’è una famiglia?”. Abbiamo visto quali elementi siano i più importanti per lui, e quanto allo stesso modo sia fragile e difficile mantenere certi legami. Di certo, quello che ci vuole in una famiglia è quello che si dice in una delle scene più toccanti del film (se non la più toccante): un ringraziamento fatto l’uno verso l’altro per essere nati. Poco importa se si è famiglia not by blood but by choice, non di sangue ma per scelta, l’importante è essere grati che l’altra persona sia venuta al mondo. E prendersene cura.