Alcuni film sono fatti per durare: superano le barriere del tempo e divengono immortali. Uno di questi è sicuramente Oldboy, il film che Quentin Tarantino, per sua stessa ammissione, avrebbe voluto fare. Uscito per la prima volta nel 2003 e vincitore del Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes, in occasione della riapertura dei cinema, il capolavoro del maestro sudcoreano Park Chan-wook torna da oggi in sala in una versione completamente restaurata in 4K. Un evento troppo bello per perderselo. Noi di Cinewriting lo abbiamo visto in anteprima e possiamo assicurarvi che si tratta di un’esperienza di rara meraviglia. Quale occasione migliore per scrivere uno speciale?
Sarò sincera. Ho visto per la prima volta questo film in streaming durante il primo lockdown e rivederlo sul grande schermo è stata un’esperienza altrettanto (se non di più) sconvolgente. Tuttavia, una volta finita la proiezione, ero terrorizzata all’idea di approcciarmi all’articolo. Cosa potrei mai dire di questo film che non sia già stato scritto? Così ho provato a pensare a un elemento, un dettaglio di quest’opera mastodontica che non cessa di far parlare di si sé. Dopotutto, è di un classico del cinema che stiamo parlando, e i classici offrono sempre chiavi di lettura nuove e diverse. Forse mi è venuta un’idea. Seguitemi nel mio ragionamento.
Fenomenologia della vendetta
Oldboy è la storia di Dae-su, un uomo apparentemente banale, ubriacone e fedifrago, che viene rapito e imprigionato in una stanza. L’unico tramite con il mondo esterno è una tv, da cui presto apprende dell’omicidio della moglie, di cui è l’unico sospettato. A nulla valgono i suoi tentativi di fuga o di uccidersi: qualcuno non gli permette di andarsene. Poi, dopo quindici anni, è misteriosamente rilasciato. Il suo unico scopo diventa la vendetta, ma prima dovrà scoprire il perché della sua cattura. Ad aiutarlo ci sarà una giovane ragazza di nome Mi-do, che si rivelerà fondamentale per comprendere la verità.

Avevamo già parlato di Park Chan-wook a proposito del suo ultimo film, Mademoiselle (The Handmaiden, 2018), ma anche nel nostro speciale sui registi sudcoreani. Sicuramente, l’opera meglio conosciuta del regista in questione è la trilogia della vendetta, iniziata nel 2002 con Mr. Vendetta e conclusasi nel 2005 con Lady Vendetta: Oldboy è il secondo capitolo. Ispirato dal manga omonimo di Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, Park Chan-wook dirige con estrema eleganza una vera e propria fenomenologia della vendetta, in cui la violenza diventa il motore propulsivo della tensione, sempre filmata con un gusto estremo per il voyeurismo e per l’estetica, in una continua tensione alla perfezione. Vi interessa approfondire questo tema? Allora vi consiglio il nostro video saggio Oldboy – La coreografia della vendetta, in cui parliamo di tutti gli elementi che rendono questo film un capolavoro.
Nel corso degli anni (e nonostante un dimenticabile remake omonimo a opera di Spike Lee nel 2013) Oldboy è divenuto un vero e proprio cult. Come mai tornare a riproporlo a neanche vent’anni dalla sua prima uscita? Che cosa ha ancora da dirci questo film? Forse sono tutti gli elementi che abbiamo citato finora (il voyeurismo, la violenza, l’estetica perfetta), ma ritengo che sia molto di più.
Una lotta impari
L’opera di Park Chan-wook ha saputo attraversare due decenni senza essere minimamente scalfita. Dalla superba colonna sonora, alle scene iconiche (come il piano sequenza della rissa uno contro tutti). Non è la sua attualità, ossia la sua capacità di raccontare il periodo storico in cui è girato, ma il suo essere in tutto e per tutto un film contemporaneo, cioè in grado di incunearsi in quella frattura oltre lo spazio e il tempo, rendendosi universale, svincolato da qualsiasi limite temporale. Proprio il tempo è il dettaglio su cui intendo soffermarmi, soprattutto nel suo configurarsi, fin da subito, come irrimediabilmente perduto.

A partire dai titolo di testa, notiamo un elemento ricorrente: la presenza di orologi. Sono dappertutto, perfino nei caratteri dei titoli di testa e nel titolo vediamo le lettere ticchettare, o addirittura formarsi dalla dissolvenza di numeri digitali. Qui Park Chan-wook si rifà allo stesso Hitchcock, che usava questo stratagemma per immergere lo spettatore nelle atmosfere tensive dei suoi film.
Immediatamente, tutto assume i tratti di una disperata corsa contro il tempo. Il regista mette in scena continui rimandi al countdown: le linee dei tatuaggi di Dae-su, come cicatrici sulla pelle, uno per ogni anno di prigionia; le immagini della tv, dalla morte di Lady D al crollo delle Twin Towers; lo scandire dei cinque giorni a disposizione per scoprire la verità sul rapitore e sul motivo che l’ha portato a odiare il protagonista. Il tempo sullo schermo scorre, così come la durata del film, e nulla potrà rimettere indietro le lancette.

Ma il tempo perduto è anche la fuga (impossibile) dal passato che torna a perseguitare, reclamando il suo debito. Uno scorrere incessante, come la presenza del sangue sullo schermo, simboleggiato dalla presenza di nastri audio. Vediamo spesso sia Dae-su sia Woo-jin Lee, il suo rivale, intenti ad ascoltare delle registrazioni. C’è un inquadratura, in particolare, in cui la pellicola, giunta alla fine, si stacca e inizia a girare a vuoto, senza che nessuno la fermi.
L’immagine racchiude, con estrema eleganza, il senso del tempo di Oldboy: l’ossessione della vendetta riplasma il tempo, che si fa circolare, un loop senza via di d’uscita. I personaggi sono schiacciati in un movimento centripeto che li porta, inesorabilmente, verso il collasso, ancora e ancora. Il tutto è pervaso da un’ironia tragica che ricorda il dramma di Edipo: il mostro Dae-su, ormai impazzito, non può fare altro che mozzarsi la lingua, pur di non rivelare mai il suo terribile segreto.
Gli stessi movimenti di macchina contribuiscono a riaffermare questo senso circolare del tempo. Nel suo ruotare e nel avvicinamento-allontanamento, la cinepresa scandisce i momenti salienti, sia di vittoria che di sconfitta, all’interno di una storia in cui la salvezza è solo una mera illusione.
Un gioco al massacro (psicologico)
Che cosa rimane all’uomo che cerca vendetta una volta portata a termine la sua missione? Lo sa bene il personaggio di Woo-jin Lee, il burattinaio del tempo. Il suo scopo non è tanto uccidere colui che odia, ma renderlo un mostro, o peggio: un cane alla sua mercé. Per questa, gioca con il tempo a suo favore. Aspetta, paziente, pronto a servire la sua vendetta, gelida e spietata. Dopo il colpo di scena finale, capiamo che la vendetta di Dae-su non è nulla, se non una parte calcolata di un piano molto più ampio, orchestrato con la precisione di uno spartito musicale. Improvvisamente, i ruoli si confondono: antagonista e protagonista sono un tutt’uno in un gioco al massacro psicologico, in cui non può esserci alcun vincitore.

Questo rimanda al senso di morte che pervade l’intero film. I due protagonisti, a questo punto, non sono altro che corpi vuoti, spinti avanti per inerzia dalla sete di vendetta e violenza. La morte si configura presto come l’unica via d’uscita, ma non per Dae-su: salvato per due volte dal suicidio, quando avrà finalmente l’occasione di mettere fine alla propria vita, sarà ormai impossibile per lui compiere l’estremo gesto.
Il tempo di Oldboy è famelico: divora i propri figli e li annichilisce sotto il peso di una vita vuota vuota, senza più uno scopo, dove la verità non è salvezza, ma condanna. Uno scorrere lento e letale, dolce come un walzer, inesorabile come la morte. Park Chan-wook ordisce una partitura di precisione millimetrica, che non lascia scampo allo spettatore, tenendolo avvinto verso il baratro finale. Se non avete ancora visto Oldboy, allora siete avvisati: rimarrete intrappolati in un loop fatto di sangue e lacrime. Proprio come la vendetta.
Che aspettate a recuperare Oldboy al cinema? Continuate a seguirci per rimanere sempre aggiornati con approfondimenti e recensioni, sul nostro sito e tutti i nostri social!