Il 24 marzo è uscito su Netflix Seaspiracy, documentario diretto da Ali e Lucy Tabrizi e prodotto da Kip Andersen, già regista del precedente Cowspiracy. Seaspiracy affronta l’enorme problema della pesca e del suo impatto sull’intero ecosistema, proponendo come unica soluzione possibile quella di smettere di mangiare pesce. Per diversi motivi questo documentario fa discutere il pubblico e in questo articolo cercherò di spiegare perché.
Parlerò della mia esperienza di visione, da spettatrice non vegana, e del perché secondo me tutti dovremmo vedere questo documentario.

Docu-spiracy
Il titolo di Seaspiracy è la crasi di “sea” e “conspiracy” (“mare” e “cospirazione”), così come Cowspiracy univa “cow” e “conspiracy”, per suggerire che l’industria ittica nasconda verità che debbano rimanere un segreto quasi a livello complottistico. Il che, in parte, è sicuramente vero.
Lo stile di questi documentari è così: riescono a tenere alta l’attenzione dello spettatore per un’ora e mezza sin dai primi minuti, sfruttando sapientemente suspense e drama e raccontando la storia in prima persona. Qui, infatti, il “protagonista” è il regista stesso, che ci racconta come la passione per gli animali marini che aveva da bambino lo abbia spinto a realizzare questo documentario e di come, nella sua realizzazione, abbia rischiato la vita.
Dal mio punto di vista, il fatto che alcuni documentari spingano sull’acceleratore del drama non è da biasimare: il genere documentario soffre di un forte pregiudizio che lo etichetta come noioso. Cercare di far stare lo spettatore incollato allo schermo è una prerogativa del Cinema stesso, ma attenzione: l’onestà verso il tema trattato dovrebbe essere un elemento fondamentale in un documentario, anche quando si tratta di docu-film o docu-fiction.
Quello che a volte non consideriamo, è che i documentari non hanno mai un punto di vista imparziale rispetto al tema: il punto di vista, e di conseguenza il taglio dell’intero film, è quello di chi ci ha lavorato e in particolare del regista.

Partiamo dalla fine: perché dovreste guardare Seaspiracy?
Personalmente l’ho trovato illuminante. Mostra il lato oscuro di un’industria gigantesca, portando alla luce alcune realtà che i non esperti (come me) non potevano nemmeno immaginare. Fa riflettere molto su quanto grande e indistruttibile possa essere questo sistema, ma soprattutto su quanto devastante per l’ambiente possa essere. Certo, lo sappiamo tutti che gli allevamenti e la pesca intensiva distruggono le risorse, ma non ci rendiamo conto di quanto.
Penso che sia giusto informarsi su temi come questi, anche da parte di chi, come me, non segue uno stile di vita vegano ed ecosostenibile. Anzi, tutti dovremmo sapere di quello che c’è dietro ogni nostra scelta, proprio per esserne consapevoli nel momento in cui la facciamo.
Questo documentario non mostra cosa accade al povero pesce quando viene pescato e ucciso, non è quello il punto. Mostra quanti danni collaterali a tutte le specie marine (e non solo) e agli ecosistemi la pesca intensiva faccia. A quanto sia ambiguo il concetto di “sostenibile” e a quanto siano grandi gli interessi economici mondiali dietro il mercato della pesca. Mostra a cosa è disposto l’uomo, pur di guadagnare, e a quanto incoscientemente lo faccia.
Mostra a cosa stiamo andando incontro.
È di tutto questo che dobbiamo essere consapevoli.
I limiti di Seaspiracy
Seaspiracy rientra nella categoria definita Cinema Green, ovvero a tema ambiente, sostenibilità e così via. Questa categoria ha di per sé un grosso limite sociale: proprio per il tipo di tema che tratta, non incontra a priori una grossa fetta di pubblico. Mi spiego meglio. È un fatto sociologicamente constatato che, davanti a esposizioni “estreme”, un individuo adotti istintivamente comportamenti difensivi nei confronti del tema trattato: ignorare una notizia (o un documentario) è uno di questi. In poche parole, cerchiamo di evitare tutto ciò che riteniamo possa farci stare male. Un documentario che mostra crudeltà inflitta agli animali e propone come soluzione una dieta vegana rischia di non essere visto da chi A) si reputa troppo sensibile per affrontare la visione e B) non ha intenzione, a priori, di cambiare il proprio stile di vita e prova riluttanza verso l’argomento.
Seaspiracy, infatti, propone come unica soluzione quella di smettere di mangiare pesce (spiegando come, nonostante ciò, attraverso il pagamento delle tasse si sostenga comunque implicitamente l’industria della pesca).
Da onnivora, non ho trovato questo documentario scioccante al punto di smettere per sempre di mangiare pesce (anche se devo ammettere che non ho ancora avuto l’occasione di farlo, quindi chissà, magari avrò un’istintiva repulsione davanti al mio piatto).
Quindi a chi non lo volesse guardare perché “no poi divento vegano” dico “vai trà“.
Però, ripeto, trovo giusto essere consapevoli di cosa accade al nostro “piatto” prima di trovarcelo sotto al naso, per fare una scelta, appunto, consapevole.

Seaspiracy: quello che non mi aspettavo
La prima novità, per me, è stata Taiji. Ali e Lucy Tabrizi si recano in questa piccola baia nel Giappone del Sud per osservare da vicino la costante barbara uccisione di centinaia di delfini apparentemente immotivata. Quello che non mi aspettavo è scoprire che a Taiji i turisti sono visti con sospetto dalla polizia e dalla gente del posto, proprio perché si teme che qualcuno filmi e/o parli di questa attività. Stando a quanto dicono in Seaspiracy, a Taiji i turisti sono tenuti d’occhio attraverso microspie nei televisori e telefoni delle proprie stanze d’albergo, oltre che essere perennemente seguiti a distanza da agenti sia in servizio che in borghese.
Se c’è qualcosa che ha ancor più dell’incredibile è il motivo per cui i delfini vengono trucidati. Io credevo per essere mangiati, ma non è così. Ai delfini viene data la falsa colpa di mangiare troppi tonni ed essere quindi concorrenti dell’uomo, ma non è vero. La pesca dei tonni è così smisurata che è stato necessario inventarsi la scusa dei delfini per giustificare la presenza via via sempre minore di questi pesci. La diretta conseguenza è uccidere il capro espiatorio, ovvero i delfini. Assurdo.

Altra rivelazione scioccante è stata quella relativa alle etichette che dovrebbero garantire una pesca sicura. Si tratta di etichette che vengono rilasciate a chi afferma di non danneggiare collateralmente altri animali durante la pesca. In particolare, di solito ci si riferisce ai delfini.
D: Potete garantire che ogni lattina sia sicura?
R: No, non è possibile. Quando sono nell’oceano, come si può sapere cosa stanno facendo? Gli osservatori a bordo si possono corrompere.
Mark Palmer (direttore associato di Earth Island Institute – la società dietro al marchio “Dolphine Safe”)
É facile immaginare cosa possa esserci dietro.

Ancora più disturbante è stato scoprire come, in alcuni casi, chi lavora sulle navi sia sfruttato senza diritti per anni senza poter scendere, ribellarsi e soprattutto contestare il metodo di lavoro. Pena, la morte. Si perché, come nel caso della Thailandia, c’è una vera e propria mafia dietro il commercio della pesca.
Vengono intervistati in modo anonimo due ex pescatori che affermano di aver visto uccidere uomini dal capitano della nave e raccontano delle varie torture subite a bordo. Questo tipo di pesca abusiva si basa sullo sfruttamento delle risorse: animali e umane.
Proprio durante una delle interviste, qualcuno informa i registi che una soffiata anonima ha avvisato la polizia (che sostiene il mercato illegale della pesca) delle loro indagini: devono interrompere e scappare. In queste scene suspense e action si fondono come in un thriller e l’attenzione sale alle stelle.

Ultimo fatto incredibile: avete presente l’enorme questione della plastica in mare? Bene. Esiste, ed è grave. Ma quello che non sapevo, ed effettivamente non ne ho mai sentito parlare neanche dagli enti preposti, è che il maggior rifiuto che costituisce un problema negli oceani sono le reti da pesca abbandonate in acqua.
Le cannucce di plastica rappresentano lo 0.03% della plastica immessa nell’oceano. Secondo lo studio citato dal documentario, circa 1.000 tartarughe muoiono ogni anno a causa delle cannucce di plastica in mare e 250.000 – solo negli Stati Uniti – vengono uccise o ferite dalle reti da pesca. Tabrizi si chiede come mai nessuno ne parli. Il regista va quindi ad intervistare due rappresentanti di Plastic Pollution Coalition, ma quello che ottiene è solo un ridicolo teatrino di passaggio di colpa senza alcun risultato.
Quello che penso del Grindadráp
Il Grindadráp è la tradizione propria delle Isole Faroe, conosciuta come caccia alle balene. Ovvero, trucidare animali a colpi di armi bianche con lo scopo di divertire e mangiare (e guadagnare, grazie al turismo e al commercio di carne). Ecco, se c’è una categoria di cose che mi fa ribollire il sangue è quando si compiono attività del genere dietro la maschera del folclore e della cultura. No, f*****o la tua cultura, è retrograda. Non è necessario mangiare le balene. Ci sono già abbastanza animali allevati per sfamarci. Qual è il lato divertente di uccidere un cucciolo di balena a suon di martellate in testa? La cultura? La cultura era anche che secoli fa alle neonate cinesi si fasciavano i piedi fino a renderli deformi a vita.
Le critiche a Seaspiracy
Dopo l’uscita del documentario, Mark Palmer denuncia un cattivo uso delle sue affermazioni, che a sua detta sono state estrapolate da un discorso molto più ampio. Cliccate qui per leggere l’articolo completo. Effettivamente, come avrebbe potuto affermare a cuor leggero davanti a due telecamere una negligenza di tale portata? È sicuramente vero che nessuno possa dare la garanzia al 100% di una pesca Dolphin Safe, ma probabilmente i responsabili non sono così disinteressati come Seaspiracy mostra.
Altro ente che dice la sua dopo l’uscita del documentario è il Marine Steawarship Council, che all’epoca delle riprese ha negato l’intervista al regista.

È difficile cogliere la linea sottile che divide il vero dal falso in casi come questi. Ognuno mostra il suo punto di vista e la verità sta nel mezzo. Certo è che la questione è molto ambigua e che gli interessi economici pesano più di quelli verso l’ambiente.

L’altra grossa critica è quella mossa in riferimento ad un dato importante sostenuto da Seaspiracy: entro il 2048 non esisteranno più pesci in mare. Tuttavia, questo dato è sbagliato. Si basa, infatti, su uno studio del 2006 dell’ecologista marino Boris Worm e che è stato ritrattato da egli stesso nel 2009. Cliccate qui per leggere la nuova ricerca di Worm.
A questa critica il regista risponde “Non siamo scienziati né abbiamo detto di esserlo“. Vero, ma la verifica delle fonti in un documentario è fondamentale. Considerando che la nuova ricerca di Worm è pubblica, viene quasi il dubbio che la scelta di inserire “2048” sia ponderata e abbia come fine quello di scioccare il pubblico. Forse la produzione non si aspettava un successo di tale portata per un documentario, con le conseguenti smentite?
In conclusione
Le mie conclusioni le ho scritte all’inizio: guardatelo. Merita, è interessante, mostra cose che penso sia giusto sapere. Poi fatevi la vostra idea. Trovate il vostro punto di vista, fate le vostre scelte. L’importante è avere un’idea (come in tutto il resto delle cose, no?).
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