High Fidelity: 5 motivi per non perdere la serie remake

Avete presente quelle giornate autunnali fredde e uggiose, quando fuori piove e ve ne state al caldo a casa, con il piumone tirato fin sopra la testa, a sorseggiare un buon tè fumante? Magari vorreste scacciare (o abbracciare) il senso di dolce malinconia che vi invade. Allora ascoltate della musica, leggete un libro, scrollate la bacheca di una piattaforma streaming alla ricerca del vostro comfort movie preferito. Quando vi succede, ripensate a questo titolo: High Fidelity. Ecco la top five delle ragioni per cui questa nuova serie, tratta dal romanzo cult di Nick Hornby e dal film omonimo di Stephen Frears (altrettanto di culto), è una scelta irrinunciabile!

Trailer ufficiale

La vicenda, scritta dallo stesso Hornby (già sceneggiatore di An Education, che ha rivelato il talento di Carey Mulligan), è sostanzialmente identica. L’azione, da Londra a Chicago, ora si svolge sullo sfondo di una New York vivace e un filo malinconica. Rob gestisce un negozio di dischi con i suoi migliori amici. Dopo la fine della sua ultima storia, decide di scavare nei suoi più grandi fallimenti amorosi per scoprire cosa è andato storto. Sarà l’occasione per crescere e diventare finalmente adulti? Il remake di High Fidelity, creato per la piattaforma Hulu da Veronica West e Sarah Kucserka (tanta esperienza nella tv generalista, da Ugly Betty a Chicago Fire), è in onda su Starzplay (la stessa che ci ha portato Normal People) con un episodio a settimana. Ottima idea per gustare le nove puntate al meglio, evitando l’indigestione da binge watching. Ma entriamo nel vivo della classifica!

Breakups suck.

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5. Il formato

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Vi chiederete: perché ascoltare una cover quando puoi sentire l’originale? Vero, ma quella delle cover è un’arte sottile e delicata da (ri)scoprire. Così concedetevi allo stesso modo a questa dramedy dall’estetica indie, perfezionata negli ultimi dieci anni da autori talentuosi e differenti. Il punto di forza? L’essere incentrata su personaggi realisticamente sgradevoli e alla ricerca di sè stessi, sembra nata apposta per il romanzo di Hornby.

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La serie prende anche il meglio della cover di Frears (2000), in primis l’espediente della rottura della quarta parete, insieme a una moltitudine di citazioni e strizzatine d’occhio, – come Fleabag ci meravigliosamente insegnato – è perfetto per la rappresentazione di interiorità fratturate con rovinose altalene sentimentali.

4. Il cast

Una parola: azzeccato! Soprattutto se si tiene presente che in uno show come questo, incentrato sulla scrittura di caratteri e relazioni, è più che metà dell’opera. Azzeccatissima anche Zoe Kravitz, legata a doppio filo a questa storia: sua madre, Lisa Bonet,era nel cast del film. La Kravitz, a prima vista troppo cool per un personaggio antieroico, insicuro e impacciato come Rob (ora diminutivo di Robin), riesce a rivelarne fin da subito la vulnerabilità, la disfunzionalità, l’ossessione per la percezione altrui, l’attenta costruzione di una fragilissima immagine di sè.

Impeccabili anche i comprimari, nei panni dei migliori amici e impiegati di Rob al negozio di dischi, Da’Vine Joy Randolph (Cherise) e David H. Holmes (Simon). Solo l’ottavo episodio, dedicato a quest’ultimo, varrebbe l’intera visione e meriterebbe uno spinoff.

3. La colonna sonora

Strepitosa, ma è quasi superfluo dirlo. Torna anche qui la mania per classifiche e top 5, inoltre ci sarà un’intera puntata dedicata alla creazione della perfetta playlist. Se volete aggiornare la vostra libreria musicale con nuove tracce e/o affinare i vostri gusti, allora questa è la serie che fa per voi!

2. Il gender swap

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Le due versioni di Rob: Jon Cusack nel film del 2000 e Zoe Kravitz nel 2020

Trattasi del cambio di genere sessuale di alcuni personaggi rispetto all’originale. In High Fidelity è efficace, sensato e incisivo. Proprio perché sia libro che film sono delle rappresentazioni maschili, la serie si riappropria di un contesto (quello del fandom e della critica musicale) tradizionalmente dominato dagli uomini – come si vede perfettamente nel quinto episodio. Allo stesso tempo, le variazioni sottolineano le discriminazioni più o meno evidenti che ancora permeano un ambiente formalmente “progressista”.

1. L’universalità delle esperienze

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Si tratta di una diretta conseguenza del punto precedente. Se avete il cuore spezzato, come pure una certa tendenza allo spleen, allora la visione potrebbe causare stati malinconici acuti e pianti a cascata. Perché c’è tutto: le montagne russe emotive degli amori irrisolti, il terrore della solitudine che ci scruta dalla finestra di fronte, l’egocentrismo che acceca quando il cuore è infranto, il dolore sordo che piomba addosso dal passato nei momenti peggiori, la gelosia furente. E la spiazzante, epifanica consapevolezza di essere, talvolta, il villain e non l’eroe della (nostra) storia. Aggiungiamo gli errori che si (ci) rincorrono come un disco rotto, come un brano in loop, e il cocktail di lacrime è servito. Tutto è proprio come la musica, che ci culla e ci salva: vale per ciascuno di noi, perché ognuno di noi ha vissuto e continua ad andare avanti.

– Life’s a bitch and then you die, right?

– Sometimes. Sometimes life’s a bitch and then you keep living.

Bojack Horseman

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