All’inizio della stagione NBA 1997-98, i Chicago Bulls avevano alle spalle 5 campionati vinti dei 7 anni precedenti. Volevano il terzo titolo consecutivo, ma il futuro della dinastia era parecchio incerto. Il GM Jerry Krause aveva infatti intenzione di rifondare da zero la squadra e nell’estate 1998 molti contratti erano in scadenza. Una situazione molto tesa che peggiorò quando ad inizio stagione la dirigenza annunciò ai media che non avrebbero rinnovato l’allenatore Phil Jackson, provocando così il mal contento tra i giocatori. Lo stesso Jordan dopo la notizia dichiarò immediatamente: “Se non ci allena lui, non farò parte della nuova squadra.” Phil Jackson cercava sempre un tema per ogni stagione e visto che sarebbe stato l’ultimo anno insieme, siccome la dirigenza aveva già praticamente deciso, quell’anno divenne “The Last Dance“.
Avevamo creato qualcosa di cui la gente voleva far parte. È il massimo a cui aspirare.
Phil Jackson
Oltre il documentario

Voglio solo che la società e i Chicago Bulls vengano rispettati come i Lakers, i Philadelphia 76ers o i Boston Celtics. È molto difficile, ma non impossibile che accada una cosa del genere.
MJ al suo primo anno nella lega.
The Last Dance, il documentario sportivo in 10 episodi (da quasi un’ora ognuno) è uscito il 19 Aprile 2020 e in meno di un mese ha già raggiunto un’audience incredibile: 23,8 milioni di utenti. Andata in onda nel momento più drammatico e incredibile della storia recente, la cavalcata di Michael Jordan e di quei Bulls si è tramutata in un vero e proprio rito collettivo, in grado di far rivivere alle persone la sensazione di quotidianità. La distribuzione è stata effettuata prima negli Stati Uniti sulla rete ESPN, mandando in onda 2 episodi alla settimana, poi nel resto del mondo tramite la piattaforma streaming Netflix, seguendo sempre le stesse modalità, ma a partire dal giorno successivo. La serie non si limita solo a raccontare della stagione 97-98, ma parla di un’epoca; l’epoca in cui l’NBA divenne un vero e proprio fenomeno mondiale, grazie soprattutto alla figura del numero 23. In occasione delle ultime 2 puntate, infatti Netflix ha rilasciato le interviste fatte a Marco Belinelli e Danilo Gallinari, i due italiani che giocano attualmente in NBA e che hanno vissuto da piccoli l’influenza Jordan.
Un’era in dieci frammenti
Il documentario utilizza alcuni schemi narrativi molto semplici, ma assolutamente funzionali per accompagnare anche gli spettatori più lontani dal mondo della pallacanestro. Secondo una sapiente tessitura cronologica, The Last Dance racconta la stagione 97-98 dei Bulls insieme a momenti precedenti dell’era Jordan. In questo modo ogni episodio porta avanti sia il motore della storia ma allo stesso tempo ricostruisce tutto quello che è accaduto per arrivare a quel momento. Più che lo sport, ad essere veramente al centro dell’attenzione, sono i diversi ritratti psicologici dei suoi protagonisti. Ad esempio la serie da molto spazio al tempo libero di MJ e alla sua passione per il golf. Lo vediamo alleviare la tensione facendo qualche buca o anche solo mentre si fuma un sigaro nella sua camera d’hotel. Come ha detto il 23: “Questo è l’unico momento dove posso essere veramente me stesso”. Di solito conosciamo gli atleti attraverso il gioco e spesso ci si dimentica che sono anche loro delle persone.
Qualche aggiustamento
Ci sono lati oscuri completamente omessi? Certo, ma non importa. Jordan rimarrà sempre una figura enigmatica ed è giusto così, fa parte del sua aura mistica. È difficile però non pensare che si sia astenuto dal dare l’ultima parola sulla serie. Alcune parti sono infatti leggermente romanzate e qualche questione affrontata in modo un po’ superficiale, come ad esempio le accuse riguardo al gioco d’azzardo o la fuoriuscita di alcune frasi compromettenti finite poi nel libro “The Jordan Rules“. Qualche piccolo difetto che comunque non intacca la veridicità della serie.
Il Re di Chicago

È Dio travestito da Michael Jordan.
Larry Bird riferendosi a MJ dopo averlo affrontato ai playoff 1986
Impossibile non conoscere il suo nome. Durante il corso degl’anni di Michael è stato detto tutto: i 6 titoli vinti, il ritiro e il famoso “I’m Back!”, il trash talking, la competitività, l’eleganza e la sua leadership severa con i compagni. Analizzato più e più volte da tantissimi esperti e usato ancora oggi come metro di paragone per decretare chi sia il miglior giocatore di sempre o su chi porti avanti la sua eredità. Insomma, di lui sono emersi sia pregi che difetti di tutti i colori, eppure The Last Dance riesce a ritrarre un nuovo aspetto del carismatico 23. Quello che vediamo non è soltanto l’incredibile e spettacolare atleta, ma un uomo che non ha mai smesso di combattere. Che non si è mai arreso nonostante sofferenze e difficoltà. La storia di un’ossessione. Lasciarsi scivolare ogni parola di dosso ma tenendole sempre a mente. Un gesto o una frase che invece di ferire alimentano un fuoco interiore, in grado di spronare a dare il massimo. Il grave infortunio al piede, la solitudine e la morte del padre sono solo alcuni dei temi affrontati, che erano sì conosciuti, ma mai veramente approfonditi.

Spesso durante le interviste a Michael viene consegnato un Ipad, dove legge i commenti di storici rivali o dei suoi ex compagni. Il documentario infatti è anche questo: un confronto. In modo molto accurato vengono approfondite tutte le rivalità tra i giocatori e le varie squadre. Partendo da Isiah Thomas e i suoi Detroit Pistons, si arriva fino gli Utah Jazz, passando per New York, Orlando e Indiana.
The Last Dance non sminuisce i giocatori attuali

MJ accettò di farsi seguire da una troupe per tutta l’intera stagione, ma diede il consenso per produrre il documentario solo nel 2016. Gira la voce che sia una conseguenza alla vittoria del titolo dei Cleveland Cavaliers, capitanati da Lebron James. I due infatti vengono paragonati spesso su chi sia il miglior giocatore, dividendo così i tifosi nelle due fazioni. Forse non è un caso l’anno, però di sicuro The Last dance non ha l’obiettivo di far primeggiare la figura di Michael sui giocatori attuali. Ogni appassionato ha il proprio idolo legato ai ricordi, e se da una parte il documentario può avvalorare i sostenitori di MJ, dall’altro non interferisce con opinioni ben diverse.
Nessuno vince da solo

Andavamo così d’accordo perché volevamo vincere il titolo.
Dennis Rodman
Il talento da solo non basta, per vincere occorre una squadra. La serie espone molto chiaramente questa regola, infatti non racconta solo di Jordan, ma ricostruisce anche le personalità e i punti di vista dei suoi vecchi compagni e della dirigenza Bulls. Phil Jackson è un allenatore molto saggio, nonché appassionato di storia dei nativi americani. Scottie Pippen, un autentico secondo violino, che è sempre stato al fianco di MJ. Un giocatore formidabile legato però ad una situazione contrattuale molto sfavorevole. Dennis Rodman, un cavallo selvaggio. Una personalità molto fragile interiormente ma che nonostante le sue follie fuori dal campo, ha sempre dato il massimo per la squadra. I vari gregari Paxton, Kukoc e Kerr che si sono sempre fatti trovare pronti nel momento del bisogno. La corsa al titolo diventa così un sacrificio comune dove ogni tassello dev’essere inserito correttamente. Ma chi mette insieme quei tasselli?
Era necessario un cattivo?

I campionati non li vincono giocatori e allenatore da soli, ma le società nel loro insieme. Una parte da sola non può vincere.
Jerry Krause
La ricostruzione del personaggio Jerry Krause non è stata molto fedele e di sicuro non gli è stato attribuito il giusto merito. Un uomo di finissima intelligenza che è riuscito a mettere le basi di una delle dinastie più influenti di sempre. Le sue dichiarazioni travisate o il modo in cui veniva preso di mira da Jordan e Pippen non gli danno il giusto ruolo ma lo fanno sembrare come il cattivo della storia. Il motivo del successo della squadra è anche merito di una dirigenza estremamente lungimirante. “Le vittorie non sono solo dei giocatori” è da intendere in un unico modo: per vincere sono importanti tutti, dal presidente al preparatore atletico. Senza togliere nulla ai protagonisti, è giusto riconoscere questo personaggio come un grande dello sport che purtroppo è venuto a mancare nel 2017.
Non bisogna dimenticare gli assenti
Karl Malone e Bryon Russell sono le più grandi mancanze della serie, nonchè i due giocatori più colpiti dalle gesta del numero 23. Hanno rifiutato di partecipare al documentario, lasciando così tutta la responsabilità di rappresentare gli Utah Jazz a John Stockton. Karl Malone, la forza della natura, un’autentica macchina da punti e rimbalzi che però non è mai stata in grado di vincere. Bryon Russell, il giocatore che ha dato letteralmente il sangue per fermare MJ durante le finals. Non aveva neanche difeso male, ma c’è voluto un pizzico di furbizia da parte dell’ex Bulls per farlo finire dalla parte sfortunata della storia. Uno dei momenti più memorabili di quella serie resta però Karl Malone che sale sul pullman dei Bulls per stringere la mano a Michael. Un gesto di una sportività unica.


The Last Dance: in conclusione
Un piacevole ritorno al passato, in grado di entusiasmare non solo i più nostalgici ma addirittura intere famiglie. Rivivere la storia dei Bulls era quello che serviva durante un momento delicato come questo, infatti The Last Dance non poteva chiedere un tempismo migliore per uscire. La serie merita di essere vista assolutamente e non solo perché è ben realizzata, ma perché è impossibile non ammirare un uomo che soltanto grazie al suo gioco sul parquet, è riuscito a estendere la propria aura in tutto il mondo.
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