In occasione dell’uscita di “Ready Player One”, Ettore Dalla Zanna ha voluto onorare la figura di Steven Spielberg, con una serie di tre speciali dedicati alla serie di “Indiana Jones”.
Ce la fa dopo tanti anni il buon Steven Spielberg a fare il film di James Bond che tanto bramava di fare in gioventù assieme all’amico George Lucas. Questo terzo film recupera tutte le atmosfere del primo. E quindi un altro manufatto biblico da recuperare, non l’Arca dell’Alleanza, ma il Sacro Graal. E recupera anche molto l’umorismo, rendendolo più marcato. Oltre a questo, si permette di andare oltre. E Spielberg torna a raccontare se stesso con l’alter ego che è diventato oramai specchio riflesso di sé e delle sue sperimentazioni in filmografia.
Archiviato il periodo horror e raggiunto alcune piccole vette in chiave Oscar (vedasi “Il Colore Viola” o “L’Impero del Sole” con un giovanissimo Christian Bale), Spielberg ritorna all’adolescenza. Ha dei conti in sospeso con il proprio passato. Il 1989 segna un periodo in cui il buon Steven non aveva del tutto risolto con le sue radici nel senso di padre (accusato dal piccolo Steven di non essersi comportato da uomo durante il divorzio dalla madre) e religione (era cresciuto vergognandosi di essere ebreo).
Un film mitico
E allora, quanto ci può essere di bello nel fare un film in cui un figlio ritrova un padre e ne affronta le comunanze e le dovute distanze. Ma Spielberg si permette di fare molto di più: non solo uno sguardo al passato intimo ma anche al passato cinematografico. E quindi consegnare al professor Henry Jones Junior, come ruolo paterno di Indiana Jones, la figura da cui tutto questo ha avuto inizio. James Bond, l’agente 007 inventato da Ian Fleming. Andando a prendere in considerazione IL James Bond cinematografico per eccellenza, Sean Connery, fresco vincitore dell’Oscar con “Gli Intoccabili” di Brian De Palma.
Una delle tante, tantissime cose belle di “Indiana Jones e l’Ultima Crociata” è il fatto di darci un’introduzione edificante. Questa permette di scoprire molte cose sul passato del giovane Indy. Infatti, spiega perché Indiana diventa un archeologo. Vediamo un giovane Indiana, interpretato da River Phoenix, che cerca di fermare alcuni ladri dal rubare la croce preziosa di Francisco de Coronado. E, nel giro di poche scene di grande ritmo, scopriamo come Indiana usa la frusta, teme i serpenti e indossa l’iconico cappello. Tra l’altro, questo donatogli da un avventuriero (nella bozza originale, costui doveva essere Abner Ravenwood, il padre di Marion Ravenwood).
Ho un sacco di bellissimi ricordi di quel cane!
Ma come sempre contano i dettagli. Ad esempio viene motivata la cicatrice sul mento di Indy. Questa è dovuta ad un colpo di frusta. Harrison Ford si procurò, in verità, quella cicatrice durante un incidente stradale nel 1964. Queste scene stabiliscono e inquadrano un rapporto piuttosto teso tra il giovane Indy e suo padre ed aiutano a costruire il mito di Indiana Jones. Uno scavezzacollo ribelle, incosciente, irresponsabile legato ad una figura paterna conservatrice. Oltretutto, professore di letteratura medioevale, dedito alla ricerca del Santo Graal e grande appassionato di Carlo Magno (“Improvvisamente mi sono ricordato il mio Carlo Magno: Lasciate che i miei eserciti siano le rocce, gli alberi e i pennuti del cielo“)
È un film di James Bond anche per come vengono cambiate di continuo le location. Prima Venezia (“La X è il punto dove scavare“). Poi la Germania (“Nazisti, odio questa gente“, per non parlare poi della scena con Hitler che firma il libretto del padre con le indicazioni per trovare il Santo Graal). Le sequenze al confine tra Austria e Germania. Per non parlare del tempio che custodisce il Graal ad Alessandretta. Nella realtà quest’ultimo corrisponde ad El Khasneh di Petra, in Giordania (luogo divenuto iconico proprio grazie al film).
L’importanza dei padri
La Jones Girl di turno, la Dott.ssa Elsa Schneider, la scena dello Zeppelin, la fuga sul biplano (un’idea scartata del primo capitolo, completamente girata senza pantaloni da Ford e Connery), l’inseguimento del carro armato (piccolo grande gioiello di coreografia da cui Ford si è portato a casa un “paio” di lividi). Il film ha un ritmo concitato e, pur mantenendo in fondo lo stesso soggetto dell’intera serie, viene impreziosito dai soggetti protagonisti. E qui si ritorna a loro due, padre e figlio.
Aldilà di qualsiasi rapporto familiare, la coppia degli Jones è una delle coppie più belle della storia del Cinema. Raramente si riesce a provare profonda affezione per dei personaggi cinematografici. Da un rapporto soggettivo, Spielberg, assieme allo staff degli sceneggiatori, ha astratto il tutto. Ed è riuscito a portare sul grande schermo un rapporto universale tra padre e figlio. Il tutto in un concentrato di simpatia, antagonismo e virilismo. “Indiana Jones e L’Ultima Crociata” è un film in cui ci mostra l’eterno valore, la vibrante forza dell’avere un padre, aldilà di colpe e di errori che si possono commettere nel corso dell’esistenza. Anche e soprattutto dei padri distanti, tanto fisicamente quanto psicologicamente.
Un film che invita a guarire dalle ferite riportate nel passato burrascoso con i nostri padri. Ripartire da zero e porre le radici un nuovo rapporto paterno e viverlo intensamente, attimo per attimo. Ma è anche un film per coloro i quali un padre non l’hanno più, perduto chissà dove. Quasi una forma di conforto. E credetemi (piccola nota personale), è sempre un enorme conforto rivedere questo splendido terzo capitolo. Il primo capitolo per fondare il mito, il secondo capitolo per il cuore, il terzo capitolo per l’umanità. E lo fa recuperando il rapporto umano più bello che ci sia: quello tra un padre ed un figlio.
Solo l’uomo penitente potrà passare
Ma “Indiana Jones e L’Ultima Crociata” raggiunge il suo apice nelle tre prove nel tempio, la quintessenza del film d’avventura (“Solo l’uomo penitente potrà passare“). Se nel primo capitolo, nella celebre sequenza in cui si svelava la potenza dell’Arca dell’Alleanza, Spielberg c’invitava, per bocca di Indy, a non guardare, qui ci sprona a guardare, ad avere la massima attenzione e, soprattutto, a credere. Alla divinità (se si crede) ed al Cinema.
Il balzo di fede, la prova più importante, non ha solo una componente religiosa e non è solo un modo per Spielberg per risolvere, intimamente, le questioni del passato. Il balzo è anche un atto di fede nei confronti del Cinema e le sue splendide illusioni. Come l’illusione che si forma nel momento in cui Indy poggia il piede su qualcosa che appare invisibile ma che poi, tramite un movimento di macchina, si svela come un ponte “mimetico”, e che, appunto, svela, l’illusione.
L’intera sequenza raggiunge picchi di grandiosità cinematografica. Il dettaglio dell’incredibile “telepatia” che instaurano padre e figlio nel momento delle tre prove è qualcosa che impreziosisce un film ed un’intera saga cinematografica. Perché, aldilà di reperti storici, di cavalieri che attendevano l’arrivo di Indiana, di nazisti approfittatori e di falsari, l’importanza dell’intero film ritorna sempre attorno ai due Jones. Dietro un grande archeologo, c’è sempre stato e ci sarà un meraviglioso imperfetto padre. Il terzo capitolo, quasi quanto il primo, ha segnato un’epoca ed ha appassionato intere generazioni. Ha cambiato l’esistenza di centinaia di persone, quasi dandogli un percorso di vita. E quando un film agisce in questo modo, tumultuosamente presente nel cuore delle piccole storie e della grande Storia, allora è davvero più grande della vita, della nostra intera effimera esistenza.