In occasione dell’uscita di “Ready Player One”, Ettore Dalla Zanna ha voluto onorare la figura di Steven Spielberg, con una serie di tre speciali dedicati alla serie di “Indiana Jones”.
1981, esce nei cinema il primo capitolo della saga di Indiana Jones ed ha un grosso successo. Harrison Ford ed il suo personaggio con frusta e fedora s’inseriscono di prepotenza nell’immaginario collettivo.
1982, esce “E.T. l’extraterrestre“, fiaba sci-fi di grande successo. Il 1982, Spielberg produce (e co-dirige) l’horror “Poltergeist” assieme al compianto Tobe Hooper, mitologico regista de “Non Aprite Quella Porta”
Il 1983 è l’anno del recupero della Twilight Zone con la pellicola “Ai confini della realtà“, a cavallo tra horror, fantascienza ed assoluta stravaganza.
Nel 1984, esce il secondo capitolo della saga di Indiana Jones, “Il Tempio Maledetto”. Perché iniziare questo secondo speciale con una breve cronistoria? Oltre a rimarcare il fulgido decennio della filmografia di Spielberg, è giusto far notare come Spielberg, dopo i successi precedenti, abbia voluto fare un passo indietro e ritornare a sfumature ed accenni che ricordassero le stesse sensazioni che si ricevevano nel vedere film come “Duel” o il ben più noto “Lo Squalo”. Il film co-diretto con Tobe Hooper è sicuramente la produzione che sprona di più Spielberg ad avvicinarsi maggiormente al versante horror (nel film “Ai confini della realtà”, il buon Steven dirige l’episodio più “candido”).
Un capitolo due che sa di prequel
Quelle stesse sfumature ed accenni che ritroviamo in questo secondo capitolo della serie. “Indiana Jones e Il Tempio Maledetto” è una stravaganza horror curiosa nel panorama del cinema d’avventura tanto quello degli Anni Ottanta quanto quello contemporaneo. Non solo l’horror per i cervelli di scimmie semifreddi, gli schifosi ragni di medio-alte dimensioni, scarafaggi (“Sembra di camminare sui biscotti“). E poi i pezzi di cuore strappati dai petti, bambini rapiti, arti spezzati in maniera vistosa, sacrifici umani, un’aria in alcuni punti da film di Lucio Fulci. Ma ciò che rende incredibilmente stravagante il film è il sudicio, l’umidità, la sporcizia che riesce ad emanare il film delle varie ambientazioni solo e solamente grazie alla padronanza registica.
Ci troviamo ad avere a che fare con il film più sporco e sudicio della filmografia di Spielberg (limitandoci alle produzioni in cabina di regia). Si riesce a percepire l’aria rarefatta di quelle grotte. I profumi e la calda accoglienza del palazzo del Maharaja Zalim Singh, unita alla crudezza del cervello di scimmia. È il film di Spielberg che viaggia più a sensazioni. Il più istintivo, conforme alla materia narrativa del film il cui perno centrale è occupato dall’elemento del cuore.
Altro che fallimento!
Nel corso degli anni, il film è stato minimizzato dagli appassionati ed, addirittura, considerato il capitolo peggiore della serie dallo stesso Spielberg. Quanto di più sbagliato. In special modo se si vuole discutere di un certo quarto capitolo di cui non se ne parlerà né ora né mai perché meritevole di un’eterna damnatio memoriae. Il secondo capitolo della serie, in verità, gode di un ottimo ritmo. Ha un folgorante inizio. In questo prologo, Spielberg, non solo, dispensa lezioni di regia ma citazioni su citazioni. Basti pensare all’abito indossato dal professor Jones, tanto per rimarcare le origini del personaggio. O il nome del club che fa da ambientazione al prologo, l’Obi Wan, in omaggio all’amico George Lucas. Il film riesce sempre a rimanere in equilibrio tra cupezza ed il cosiddetto “goofy humor”. In quell’umorismo buffo e cialtrone ma sempre incredibilmente efficace.
Una scena di efferata crudezza si affianca ad una in qui viene intavolato un simpatico battibecco tra Indiana e Shorty, interpretato dal giovane vietnamita Ke Quan che ritornerà in un film che ricorderà molto questo secondo capitolo “I Goonies” (“Il Tempio Maledetto” può essere inteso come il fratello più sanguinario de “I Goonies”).
Ad una scena di sacrifici umani o di cunicoli segreti del palazzo del Maharaja, si affiancano scene come quella del gommone gonfiabile “di salvataggio” o quella in cui Indiana Jones cerca di abbordare la protagonista femminile (che poi diventerà moglie di Spielberg) sollecitandola sui richiami sessuali.
Piccole note del dietro le quinte. La produzione, dopo alcuni problemi, si è spostata nello Sri Lanka, per la precisione la città di Kandy, dov’era già stato girato “Il ponte sul fiume Kwai” di David Lean. I cameo del film, da Dan Akroyd a George Lucas passando per lo stesso Steven.
Conclusioni
Harrison Ford in questo film è in gran forma, perfettamente a suo agio sotto il cappello di Indy, malgrado l’operazione lampo all’ernia del disco subita nel bel mezzo delle riprese. Il film non raggiunge gli incassi totali dei film di maggior successo di quell’anno. La critica è leggermente meno felice e, come scritto, Spielberg, in seguito, l’ha considerato come il peggiore della serie. Se il primo film spingeva più a fondare le origini del mito e ad essere estremo postmodernismo, il secondo film vira maggiormente sul sentimentale.
Come suddetto, l’elemento centrale è il cuore e la potenza che riesce a padroneggiare contro tutto e tutti. Avere cuore per tutto e tutti come una delle cose più umili dell’umanità. La diversità è sinonimo di uguaglianza (vedasi tutta la storyline secondaria dei bambini rapiti soggetti allo sfruttamento minorile). Avere amore. Ma l’amore, in ogni forma strana a cui si può riferire, combatte tutto, anche la voglia continua di cercare il possibile dopo che si è trasformato in impossibile. E proprio per questo, è anche un film sulle grandi paure. Su quelle grandi paure che rendono ogni cosa, anche la più piccola, importante e vitale. Una lezione di etica da tenere presente in un mondo sempre più egoistico.
Sembra fare sempre di meglio il buon Spielberg. È forse impossibile fare di meglio per donarci un’altra perla della serie dedicata ad Indiana Jones. Forse…