Nelle ultime settimane, è uscito il remake diretto da Eli Roth con protagonista Bruce Willis, è giusto andare a recuperare l’originale con protagonista Charles Bronson.

Il Giustiziere della Notte

Gli inizi degli anni Settanta per gli Stati Uniti d’America sono contraddistinti da annate molto buie, disastrate. Le contestazioni per la Guerra del Vietnam, la fine di quest’ultima (“la prima guerra persa”). La tenebrosa presidenza Nixon e la sfiducia totale nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Film come la saga dell’ispettore Callaghan, il tanto censurato “L’Ultima Casa a sinistra” di Wes Craven erano in grado di andare a pungere il nervo scoperto di un Paese. In quel tempo, l’America si mostrava piuttosto sensibile e debole verso precise tematiche. In special modo quella sottile linea di confine tra la giustizia e il giustizialismo.
Da una parte la mentalità del Callaghan interpretato dal repubblicano Clint Eastwood. Dall’altra la voglia di farsi giustizia da sé dei coniugi John ed Estelle Collingwood per vendicare la loro figlia, Mary. Non solo il cinema, ma anche il fumetto, a quei tempi, affronta il problema della giustizia privata e lo fa con crudezza ed assoluto realismo. Nel Febbraio del 1974, alcuni mesi prima dell’uscita de “Il Giustiziere della Notte”, debutta sulle pagine del numero 129 di “The Amazing Spider-Man”, il Punitore, un vendicatore con vistoso teschio sul petto, chiamato Frank Castle, veterano di guerra, pluridecorato, il quale perse la famiglia in uno scontro a fuoco, barbaramente assassinata dalla mafia. Frank, per vendicare la sua famiglia, utilizzerà tutte le proprie competenze fino a sfociare alla tortura per perpetrare una propria guerra personale contro qualsiasi criminale del mondo. Natura brutale, predisposizione ad uccidere, l’eroe si fa antieroe, l’eroe cambia prospettive e comincia ad uccidere. Il Punitore aveva anticipato quello che poi sarebbe stato, per molteplici aspetti, un suo simile, il Paul Kersey di Charles Bronson.

“Il tuo cuore sanguina sempre a sinistra, eh?”

Il Giustiziere della Notte
Il film di Michael Winner è liberamente tratto da un libro di Brian Garfield del 1972 ed ha per protagonista un ingegnere edile, liberale, che durante la guerra in Corea ha prestato servizio come medico per rispettare il suo giuramento da obiettore di coscienza. Paul Kersey per l’appunto, interpretato da Charles Bronson, rappresentante lapalissiano di due Americhe. Ben evidente non solo nel proprio animo ma anche nei posti in cui va in vacanza con la famiglia ed in cui vive.
L’inizio è l’idillio della famiglia alle Hawaii, caldo ed accogliente, a cui segue il ritorno a New York, un postaccio schifoso pieno di gentaglia come gli sovviene un collega di lavoro a Paul. La svolta fatale della vicenda è l’aggressione casalinga di una banda di giovinastri (il riferimento è chiaro alla Manson Family) capitanata da un giovanissimo Jeff Goldblum. Viene picchiata violentemente la moglie di Kersey e violentata la figlia che, traumatizzata, precipita in uno stato di afasia. Kersey, nel vedere le conseguenze di questa aggressione, reagirà.

La distopia di New York e dell’intera America.

Il Giustiziere della Notte
Paul Kersey, da architetto di sinistra si trasforma in uno spietato assassino a sangue freddo. Coperto fisicamente da un cappotto borghese ma ammantato spiritualmente dal passato violento degli Stati Uniti d’America. Fondamentale la ricostruzione storica di un villaggio di cowboy messo su per i turisti a Tucson, in Arizona, luogo dove viene mandato Paul dal suo datore di lavoro. In questa ricostruzione, Paul denota e riflette sui pionieri che si difendevano da soli senza aspettare la polizia. Aria da western con il pistolero protagonista che mette le cose a posto eliminando i pellerossa. Ma più che un western urbano, “Il Giustiziere della Notte” sembra un film di fantascienza distopica. Una versione più reazionaria del punto di partenza della narrazione di “Fallout 4“. New York è un luogo fetido e malsano come lo è internamente l’America, la quale è nata con una rivoluzione ed è proseguita con un massacro. Un Paese, che invece di allontanare i demoni ed i fantasmi dei massacri e delle uccisioni, li abbraccia nostalgicamente.
Kersey è un uomo vuoto inghiottito dal giustizialismo e Bronson, monoespressivo, riesce magnificamente a far trasparire il tormento interiore, la sofferenza annacquata da un paio di goccetti. Ma anche la rabbia che fa manifestare negli atti di violenza disseminati nei luoghi più malfamati della città, alla ricerca di qualcuno da punire. La violenza è quella che solo negli anni Settanta si poteva mostrare al cinema. Paul Kersey può permettersi di sparare alle spalle anche ad un rapinatore nero disarmato in fuga (come Gene Hackman ne “Il Braccio Violento Della Legge“).

Conclusioni

Ed il forte conflitto interiore dell’America si manifesta anche nel finale con la reazione del poliziotto interpretato da Vincent Gardenia. Il portatore di giustizia comune, nella “Terra della Democrazia”, che chiede a Kersey di cambiare città invece di arrestarlo. Kersey scappa e va a Chicago. In stazione, alcuni teppisti prendono di mira una ragazza. Risposta di Kersey: il sorriso di Bronson ed il gesto iconico della pistola con cui pare dire “Ci vediamo più tardi”. Il film di Winner è disturbante, spaventoso, moralmente sbagliato eppure affascinante in termini cinematografici e prototipo di altre grandi produzioni (il “Taxi Driver” di Martin Scorsese, su scrittura dell’esplosivo Paul Schrader). A confronto, il remake diretto da Eli Roth è equivalente ad una passeggiata nel parco per prendere una boccata d’aria fresca. Non c’è partita. Ma l’elemento più spaventoso del film del 1974 è proprio quel sorrisetto finale.
La violenza genera solo altra violenza e persino un liberale obiettore di coscienza può iniziare a prenderci gusto una volta entrato in questo vortice sanguinolento. Anche dimenticandosi degli assassini della moglie e della figlia. Delle volte basta poco. Un sorriso, un occhiolino per entrare nella Storia del Cinema e nel cuore nero degli uomini.

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