Anno 1995. Terzo capitolo della saga di “Die Hard”. John McTiernan, Bruce Willis, Samuel L. Jackson e Jeremy Irons. Risultato? Ce ne parla Ettore Dalla Zanna in occasione di Santo Stefano.
Premessa Personale
Con questo mini-saggio, si conclude la mia piccola trilogia saggistica dedicata alla saga di “Die Hard“, una serie che mi ha appassionato sin da ragazzino. È stato gratificante aver potuto scrivere anche di questo terzo capitolo che considero il picco assoluto. Il quarto e il quinto “Die Hard” non verranno integrati nell’insieme perché insignificanti qualitativamente piuttosto risibili. Andiamo! Nel quarto, un manipolo di hacker si contrappone ad un vecchio poliziotto di New York. Degli hacker! E nel quinto, quel vecchio poliziotto che fa da balia al figlio? Per carità! Preferisco chiudere con questa ennesima esplosione. L’ultimo grande film nella carriera di John McTiernan. Il cineasta finirà a fare cose tipo “Rollerball“… meglio dimenticarceli, va.
Le Origini
McTiernan floppa pesantemente (ed ingiustamente) con il grandissimo “Last Action Hero” nel 1993. È alla ricerca di un nuovo film. Gli viene proposto “Batman Forever“. Qualcosa, però, lo riporta indietro nel tempo, al 1988. John McTiernan decide di tornare alla regia di un nuovo capitolo di “Die Hard“.
Manca de Souza e quindi manca uno script. Tra i cineasti contatti per la sceneggiatura figura il nome di John Milius (un “Die Hard” scritto da Milius… uno di quei capolavori che mai più avremo la possibilità di vedere). Escluso anche lo script di McClane in giro su di una nave (troppo “Trappola in alto mare” di Steven Seagal secondo McTiernan). Arriva una soluzione: “Simon says”, lo script inizialmente ideato per il quarto capitolo della serie di “Arma Letale” che il suo autore Jonathan Hensleigh ha prontamente riscritto adattandola a John McClane.
Il Prologo
C’è molto di “Summer in the city” dei Lovin’ Spoonful, canzone d’apertura, all’interno del film di McTiernan. Persino alcuni elementi del videoclip. Il taxi che impazza per le strade di New York, inversioni a U che ricordano quelle compiute da McClane nel film, l’arrivo all’area portuale con lo stesso taglio d’inquadratura presente nel film. Il Natale non c’è più. La canzone ce lo fa capire. Niente più Los Angeles, niente più aeroporti coperti da neve. La protagonista ora è New York, la casa di John McClane.
Il prologo dura 42 secondi (“Quanto fa 21 su 42?“, occhio ai dettagli di McTiernan e della sceneggiatura, nulla è casuale!). Stralcio di New York, titolo del film con effetto da lama tagliente, la canzone, il cuore di New York, le persone che si muovono freneticamente nella Grande Mela. Poi un’esplosione. La memoria va immediatamente all’attentato terroristico compiuto a Manhattan (ci ritorneremo). Ma rimane comunque uno dei prologhi più belli della storia del cinema.
Tutta un’altra storia
“Die Hard: Duri a Morire“, dalla durata di 131 minuti, scorre con una facilità irrisoria. Scardina completamente quanto fatto con il seguito. Il terzo “Die Hard” è più seguito del primo ed, al tempo stesso, ricorda molto il primo capitolo. Il regista è lo stesso, McClane ha una spalla (nuovamente di colore) che, a mano a mano, diverrà sempre di più un co-protagonista, Zeus Carver, interpretato da Samuel L. Jackson (nel suo personaggio c’è ancora un pò di quel Jules Winnfield di “Pulp Fiction“). McClane è ai ferri corti con sua moglie Holly. Però bisogna dirlo, McClane è un pò ai ferri corti proprio con il mondo intero.
Sono passati sette anni da quel 1988 e l’incidente del Nakatomi Plaza sembra essere ormai un lontano ricordo storicizzato ma abbastanza dimenticato dalla massa. McClane, con la separazione della moglie, con la sua progressiva instabilità, si ritrova ad essere un uomo distrutto, alcolizzato, depresso e, dall’inizio alla fine del film, affetto da un grave mal di testa. McClane è divenuto un miserabile, un uomo, sospeso, a fine carriera e distrutto. Fino a quando qualcosa non accade. L’esplosione del prologo getta il dipartimento di polizia nel panico. Un certo Simon, andando avanti a suon di filastrocche, vuole e pretende McClane. Torna, quindi, un nuovo cattivo, e il suo piano, in qualche modo, agendo per ipocrisia, doppio gioco e falsità, ha in sé delle vecchie conoscenze. Di natura soprattutto parentali oltre che per motivi economici.
Tale fratello maggiore, tale fratello minore
Non c’è davvero nulla di politico dietro alle azioni del terrorista che si fa chiamare Simon come in un vecchio giochino (Simon dice, Simon ordina), in realtà il tutto è una bella vendetta come esplicitato dal titolo originale del film. Nei panni di Simon, il fratello maggiore di Hans Gruber (ESATTAMENTE, il personaggio interpretato da Alan Rickman, ucciso da McClane nel primo film, facendolo volare nel vuoto dal Nakatomi Plaza), troviamo un magnifico Jeremy Irons. Simon ricorda molto McClane nell’abbigliamento: predilige la canotta (blu nel suo caso), indossa abiti eleganti solo in caso di evenienza (quando s’infiltra, ad esempio, nella Federal Reserve). Rispetto al fratellino Hans, Simon è molto più diretto.
Se ha voglia di spararti, lo fa, sennò si diverte a portarti in lungo e largo per le vie di New York. Si dedica a comporre filastrocche ed indovinelli (quello delle Ardenne è ormai divenuto celebre) quando invece il fratello amava parlare di Alessandro Magno. Entrambi, però, vogliono i soldi. Entrambi vogliono morto McClane.
Irons è straordinario nell’interpretare il terrorista villain. Non rimpiange né l’interpretazione di Rickman e neanche la prima scelta per il ruolo di Simon: Sean Connery. Lo scozzese declinò l’offerta perché non voleva interpretare un personaggio tanto diabolico.
Zeus Carver
Neanche Samuel L. Jackson è stata la prima scelta per il proprio ruolo. Prima di lui, era stato contattato Laurence Fishburne, che declinò immediatamente. Per il ruolo, Jackson affermò di essersi ispirato a Malcom X. Zeus è un nero profondamente irritato dagli atteggiamenti dei bianchi. Un anti-Al Powell verrebbe da dire. E questo, incredibilmente, non è un difetto. Zeus entra, molto spesso, in conflitto con McClane (pur salvando il poliziotto da una gang di Harlem, all’inizio del loro rapporto) e da questo conflitto, i due capiscono molte cose di se stessi. Zeus mette a repentaglio la sua stessa vita, l’incolumità del negozio, con determinazione si scontra con la polizia e decide di affrontare Simon da solo, senza sapere il funzionamento della sicura di un’arma.
Un’etica morale spropositata, una mina vagante come McClane. I due sono perfetti assieme proprio in quanto uomini qualunque, oltretutto miserabili. Il film sembra quasi “Le dodici fatiche di Ercole” con più pallottole. Era dai tempi di “1997 Fuga da New York” (guarda caso da un capolavoro) che nessuno rendeva la Grande Mela, protagonista assoluta di un film eccezionale sotto tutti i punti di vista. Ritmato alla perfezione (visto ancora oggi, funziona alla grande), ben scritto, con una colonna sonora d’antologia, ma la qualità generale si vede nella cura dei dettagli. Dai particolari linguistici tedeschi, dalle piccole sequenze che possono segnare la storia del cinema (la sequenza in ascensore), dalle scene di massa e dal loro montaggio, da quei particolari anche insignificanti ma che descrivono un film.
L’aspirina
La ricerca di McClane dell’aspirina per risolvere il problema del mal di testa è come la valigetta di “Pulp Fiction” (ancora Tarantino). Qui Bruce Willis riscrive se stesso, l’iconografia di McClane e dei personaggi che ha interpretato nel corso della sua carriera. Se in “Hudson Hawk” (1991), ad esempio, non riusciva mai a bersi un cappuccino in pieno relax, qui non riesce a trovare un’aspirina. È stropicciato, più comico che mai, non ha nulla da perdere e si unisce assieme ad uno di Harlem che possiede un semplice negozio e che vive in una New York (ed un’America) ancora in forte stato d’intolleranza.
Tutti e due contro Simon Gruber. Il nero per togliersi di mezzo polizia e terroristi, ma soprattuto, in generale, da questa situazione strampalata ed assurda. Il bianco perché in gioco c’è molto di più. Ed anche Simon, la nemesi, lo sa. Mira, sì, ai soldi della Federal Reserve ma non dimentica McClane. Pur avendo odiato il fratello quando era in vita, il legame sanguigno tra fratelli resta. E se tuo fratello muore per colpa di un altro, special modo per colpa di un poliziotto, è giusto chiudere la faccenda una volta per tutte.
Il finale (tralasciando quello alternativo molto “leoniano”) è un’auto-celebrazione di tutto ciò che è stata la trilogia di “Die Hard“. Tutto era iniziato con un Gruber e tutto si conclude con un Gruber. McClane, come nel primo film, resta di nuovo con solo due pallottole che dovrà usare per stendere un Gruber. Simon viene sconfitto, McClane, all’improvviso, non ha più mal di testa (l’aspirina recuperata non aveva fatto alcun effetto).
Conclusioni

Il film si conclude con un ultimo scambio di battute con i suoi eroi miserabili. Due eroi crepuscolari, sofferenti, due seconde scelte che si sono rialzati sempre in piedi, che hanno snocciolato battute memorabili nel corso del film e che ora si godono quel poco che hanno. McClane rimane un uomo miserabile, che porterà a casa solo lividi, un’amicizia con un negoziante di Harlem e, magari, la possibilità di fare pace con Holly al telefono. Mentre Zeus, dopo questo casino, torna a casa con le ferite riportate e si ritroverà con il negozio sfasciato dalla gang di Harlem che voleva morto McClane.
Ma loro decidono di pensare al presente ed alla soddisfazione di aver portato a termine il compito. Due uomini sbagliati, nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Due eroi comuni. Il terzo “Die Hard” si conclude impartendo la stessa lezione che era stata fatta dal primo. Rimanendo tradizionale ma, al tempo stesso, alzando la posta in gioco e vincendo. In un film unico per il cinema di oggi, che nessuno produrrebbe, nel nostro mondo con troppe e, purtroppo, vere bombe.
Il terzo “Die Hard” è un film epocale che ha scritto la storia del cinema d’azione e continua ad impartire forti lezioni di cinema a tutti i blockbuster usciti anche negli ultimi tempi. È un film di ferite, di fragilità, di sacrificio, con il giusto contenuto melodrammatico, diretto alla perfezione da John McTiernan, perfetto nei ritmi tra momenti seri e comici, con battute memorabili e con personaggi grandiosi. Da vedere a Natale, a Ferragosto, quando sei triste, quando sei felice. Ti colpisce, ti percuote, ti appassiona e ti sconvolge. Ogni volta che senti la marcetta militare “When Johnny Comes Marching Home”, che fa da tema musicale al film, ti commuovi e sorridi per la contentezza. Consapevole di aver visto un capolavoro. La perfetta conclusione di un sequel perfetto di un’immensa trilogia. Gloria eterna a “Die Hard“!
“Ma allora chi è andato nelle Ardenne?”
“Lo stronzone, solo lui.”